Avanzi

Paolo Bertozzi e Stefano dal Monte Casoni, Avanzi

Avanzi di Paolo Bertozzi e Stefano dal Monte Casoni è stato prodotto nel 2001 in occasione della I Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporaea “Il Volto felice della globalizzazione” ed è stato presentato anche nell'ambito dell'esposizione “Artist's Ceramics”, Museo Ariana, Ginevra, 2002.

Potpourri

Paolo Bertozzi e Stefano dal Monte Casoni, Potpourri

Potpourri di Paolo Bertozzi e Stefano dal Monte Casoni è stato esposto nel 2003 in occasione della II Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea.

Caly Island

Paolo Bertozzi e Stefano dal Monte Casoni, Caly Island. Foto: Bernardo Ricci

Con un omaggio a Piero Manzoni continua la tematica della riproduzione e della reinterpretazione come una scorribanda che include la riappropriazione dell’immaginario dell’arte contemporanea. Sul filo “della commedia dell’arte” all’icona del contemporaneo viene, con una recita a soggetto in un linguaggio di grande tradizione, restituita la sua irriverente nobiltà.

Caly Island di Paolo Bertozzi e Stefano dal Monte Casoni Casoni è stato prodotto nel 2006 in occasione della III Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea “Indisciplinata”.

Rifiuti di ceramica

Tiziana Casapietra: Vi ho sempre sentito dire che vi fa “schifo” la ceramica eppure usate esclusivamente questo materiale, con una perizia da scienziati. Come vivete questa situazione conflittuale?
Stefano Casoni: La mia è una repulsione viscerale per tutto il mondo ceramico, per la tecnica e per il materiale ceramico. Abbiamo studiato presso un Istituto d’Arte specializzato proprio in ceramica. È quindi un materiale che ha segnato la nostra formazione. Questa repulsione è una contraddizione con la quale ci siamo abituati a convivere e che ci porta anche a perseverare nella ricerca. Una sorta di contraddizione che più che a scappare, porta ad accanirsi.

TC: A me sembra che questa repulsione più che verso il materiale, voi la proviate nei confronti del mondo ceramico.
SC: Si tratta di un materiale che esercita su di noi una grande attrazione e una fortissima repulsione, perché è faticosissimo affrontarlo e misurarcisi. Ma è anche vero che dallo stesso ambiente ceramico siamo spesso fuggiti a gambe levate, preferendo occuparci di design o entrando in contatto con altri linguaggi.

Roberto Costantino: La ceramica può fare a meno dell’arte contemporanea. Ma se voi non vi trovaste a frequentare l’arte contemporanea che cosa ne sarebbe della vostra ceramica?
Paolo Bertozzi: Il pensiero sulla ceramica è sempre stato un pensiero fisso. Per quanto riguarda l’arte contemporanea il problema dei materiali è totalmente superato. Anzi, credo che oggi l’arte contemporanea abbia imparato a convivere con tutti i materiali.

RC: Probabilmente l’apertura dell’arte contemporanea a un’infinità di materiali, ha permesso anche a voi la libertà di utilizzare un mezzo così poco frequentato.
PB: Forse sono proprio i tempi a essere maturati in questo modo. Sono molti gli artisti importanti che oggi lavorano e si misurano con le tecniche artigianali.

TC: Alla Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea ci sono molti artisti che sono invitati a sperimentare la ceramica per la prima volta. Voi, invece, siete sia artisti contemporanei che grandi tecnici della ceramica. Alla I Biennale c’erano sia un vostro lavoro, un capolavoro di conoscenza tecnica, sia le semplicissime targhe di Rainer Ganahl.
PB: Un artista che guarda alla ceramica senza essere imbrigliato dalla competenza tecnica partendo da presupposti totalmente diversi, può portare una ventata di novità importante nello stesso mondo ceramico. Credo però che una buona conoscenza dei materiali affiancata a un altrettanto approfondita conoscenza dell’arte contemporanea, possa dare vita a un cocktail ancora più interessante.
SC: Non bisogna assolutamente dimenticare che la tecnica è un linguaggio. Il linguaggio si apprende parlandolo tutti i giorni; così facendo lo si affina, e attraverso la finezza del linguaggio viene filtrata la sensibilità. Non bisogna dimenticare che noi autori che ci occupiamo di arti visive diciamo le cose attraverso gli oggetti che si vedono.

RC: Voi vi ponete come artisti che usano la ceramica e al tempo stesso come un’impresa che si dedica all’arte. In questo modo viene recuperata una tradizione oggi praticamente scomparsa, ma che è propria di una certa linea che attraversa la storia dell’arte contemporanea. Mi riferisco all’esperienza della “Factory”, anche se lì il lavoro lo si faceva fare soprattutto ad altri. Cosa vuol dire, dunque, essere un’impresa oggi nel mondo dell’arte contemporanea, e per di più un’impresa che adotta un unico mezzo, un unico linguaggio?
SC: Noi veniamo da una cultura produttiva che si relaziona con il materiale; da un ambito che ha sempre operato “in equipe”. È un po’ la storia della bottega d’arte, del lavoro dell’arte, dell’industria dell’arte. Conosciamo la fine che ha fatto quest’industria dell’arte, il passaggio dalla produzione artigianale alla produzione industriale. Ma, quando iniziammo a lavorare insieme, avvertimmo soprattutto la necessità di uscire dalla stagnazione di un ambito in cui l’arte aveva perso l’oggetto in nome dell’idea. Per uscire da questa situazione di stagnazione introspettiva si doveva dialogare e sperimentare. Sperimentare vuol dire anche rinunciare a se stessi, cercare di ascoltare gli altri in una sorta di perdita di soggettività. In questo senso la “Factory” è uno straordinario esempio. Cosa fa Warhol con la “Factory”? Si scarica completamente della sua soggettività. Quando chiede alla prima ragazza che passa: “scusa di che colore faresti questo fiore?”, il suo è un gesto intelligentissimo e attualissimo. E questa è l’operazione che viene fatta in genere all’interno di un’azienda.

RC: Se voi non foste configurati come impresa, fareste ugualmente gli artisti?
PB: Se io non lavorassi con Casoni in un’impresa, farei l’artista lo stesso.
SC: Io invece da solo non trovo alcun interesse a fare niente. Vent’anni fa, una grandissima molla fu quella di aprire un mutuo per costruire il laboratorio. Quando hai un grossissimo problema in qualche modo devi venirne fuori. Per risolverlo avevamo a disposizione la capacità di saper fare ceramica. In quel periodo io vedevo solo cose che non mi piacevano e volevo cercare di fare delle cose che calzassero di più la mia sensibilità. PB: Il fatto di poter prendere un capannone, avere un laboratorio e dei debiti, mi dava quell’inquadratura del lavoro artistico che cercavo.

RC: Cosa significa per degli artisti-ceramisti realizzare delle opere in ceramica che non sembrano tali, che non sembrano fatte in ceramica, sto pensando ad esempio ai vostri remade, alle vostre scatole Brillo. SC: Ma noi non facciamo iperrealismo. Non lo abbiamo mai fatto.
PB: Già nel passato, ogni produzione ceramica, ogni tecnica, ogni stile, ogni effetto ceramico, è sempre stato il frutto di un qualche condizionamento culturale. Questa ceramica che è così camaleontica, plasmabile, si adatta alle culture e alle tecniche, con risultati talvolta agli antipodi, ma è sempre il frutto di un condizionamento culturale. Allo stesso modo quando noi realizziamo una scatola Brillo o un finto cartone, cosa facciamo? Non riproduciamo un cartone. Piuttosto, diciamo “cartone” con le parole di un nuovo linguaggio, quello del materiale ceramico. È il desiderio di esprimersi attraverso un linguaggio che si avvale della terra, della silice, degli ossidi. Per questo mi sento all’interno della tradizione del naturalismo storico.

RC: Mi colpisce la vostra insistenza nell’affermare il valore primario della tecnica su qualsiasi cosa. Eppure esiste una ceramica che è riuscita a entrare nell’arte contemporanea “sputando nel piatto in cui mangiava”. Mi riferisco a quegli artisti che hanno affrontato la ceramica usando cocci, scarti, materiali di recupero; a tutta la ceramica venuta fuori dalla grande stagione degli anni ‘50, che ha creato delle opere informi; ma anche a Jorn che modellava la ceramica in Lambretta, facendosi aiutare dal suo cane. È l’immagine di un’arte che giunge a fare della ceramica straordinaria, ma senza mai badare più di tanto alla tecnica.
Voi state dialogando con una Biennale che ha alle sue spalle questa tradizione o, meglio, questa anti-tradizione. Come vi ponete nei confronti di una storia della ceramica che è entrata nell’arte contemporanea in questo modo?


PB: Questi artisti hanno usato la ceramica perché vedevano in questo materiale il veicolo più giusto per sperimentare. Un modo molto libero di affrontare la materia. Ma è quello che facciamo anche noi in questo momento, credo.
SC: Le esperienze di cui parli scaturivano dal desiderio di ricerca. In quel momento occorreva rompere i piatti di una tradizione per urlare cose nuove.
PB: Credo si tratti, soprattutto, di un concetto di libertà. Libertà da un senso di riverenza verso questo materiale che deve essere cotto bene, seccato bene, fatto in una forma costruita in un certo modo, ecc. Questi sono i famosi vincoli che in qualche modo ti creano quella gabbia. Noi stessi, pian piano, siamo riusciti a liberarcene.
SC: Abbiamo anche accolto nel nostro lavoro tutto quello che era l’“orrendo” e il “brutto” della ceramica, come la fotoceramica, solitamente usata per le immagini mortuarie. È un affondare il coltello, tappandosi inizialmente il naso, senza i pregiudizi tipici del mondo della ceramica. È comunque un’operatività di senso contrario rispetto agli artisti di cui tu parlavi e che entravano nel mondo della ceramica dall’esterno. Anche noi, pur agendo dall’interno del mondo della ceramica e con una conoscenza della tecnica, agiamo con un’operatività sempre di rottura, e alla fine queste cose prodotte sono riuscite ad avere il fascino che la ceramica aveva perso.

RC: Solitamente siamo abituati a ragionare dividendo i campi di azione, a distinguere l’impresa dall’artista, e il ceramista dall’artista. Voi siete riusciti invece a creare questa coincidenza di ruoli. Andiamo indietro nel tempo, agli anni in cui facevate le opere degli altri. Cosa significa, per un soggetto come voi, che è al tempo stesso ceramico, artistico, imprenditoriale, mettere al mondo l’opera di un altro artista, che è la cosa da cui forse siete anche partiti?
SC: Non trovo nessuna differenza. Abbiamo sempre voluto avere nel nostro modo di operare una grande spregiudicatezza, che viene dal darsi una libertà operativa. Ti faccio l’esempio della produzione dei progetti di Mendini, ad esempio la sua Poltrona di Proust in ceramica. Insieme a Mendini, abbiamo sempre considerato questo oggetto come un oggetto il cui valore, di volta in volta, poteva essere ribaltato. Mendini lo ha firmato come un classico lavoro d’arte nella parte anteriore e noi lo abbiamo firmato nella parte posteriore come un assegno, mimando, così, l’operazione economica ed estetica di girata di un assegno economico. Appropriandocene nello stesso tempo, ma dando anche la disponibilità a chiunque lo possedeva di firmarlo e appropriarsene. Quindi quello che abbiamo fatto noi non è mai stato in realtà un riprodurre un oggetto di un altro autore. Ma è stato sempre un modo per appropriarsene, condividerlo, e abbandonarlo al suo destino. Così come adesso, molto liberamente, ricostruiamo la scatoletta di merda di Manzoni. Nel nostro lavoro è entrata l’idea dell’assunzione del rifiuto inteso come materiale utilizzabile per la costruzione di un lavoro d’arte. Utilizziamo liberamente anche i rifiuti dell’arte e li integriamo insieme agli altri oggetti nella costruzione del nostro lavoro.