Aspettare e vedere
Lauri Firstenberg
Nel 1967, Lucio Fontana intervistato da Daniela Palazzoli per “Bit”, rifletteva sul futuro, la tecnologia, la scienza e l’arte dalla prospettiva di uno che “non arriverà al 2000”. A più di trent’anni di distanza, tuttavia, la sua eredità è viva, in modo particolare nel contesto di questa mostra organizzata dall’associazione Attese: un nome che richiama quell’abile e stupefacente intervento nell’ambito della pratica artistica rappresentata dai “tagli”, i Concetti Spaziali Attese di Fontana. La stessa idea su cui è imperniata questa mostra sembra anche relazionarsi alla criticità di quel gesto e alla sua carica esplosiva nei confronti della pratica, delle gerarchie e dei generi artistici convenzionali, traducendo fedelmente ciò che la parola attese significa: aspettativa, indugio, speranza, potenziale.
Venticinque artisti multimediali di tutto il mondo sono stati chiamati ad Albisola, nel luogo dove Fontana, fin dagli anni Trenta, realizzò le sue sculture. Ad Albisola, artisti che lavorano nel contesto internazionale dell’arte contemporanea sono così giunti per dialogare con gli artigiani locali che lavorano nei laboratori tradizionali di ceramica. La posta in gioco era il processo di scambio e di traduzione, di confluenza e spostamento spaziali e temporali, poiché si trattava di documentare in trasparenza lo sviluppo di questo insieme di esperienze, in attesa del coacervo di pratiche e risultati interdisciplinari così prodotto, frutto di questo incontro tra tradizionalismo locale e concettualizzazioni globali.
Questa oscura località dotata però di una storia, anacronistica nella sua realtà produttiva, nel suo rivolgersi a un mezzo tradizionale quando sono i nuovi mezzi a dominare sulla produzione artistica contemporanea, offre invero materia per un esperimento denso e rilevante, ricco sul piano visivo e su quello culturale. Artisti provenienti dal Kosovo o da Tokio hanno prodotto individualmente delle opere secondo i criteri dei laboratori dei ceramisti albisolesi. Un esperimento che riguarda il viaggio, i luoghi, l’incontro della produzione locale con gli internazionalismi, si confronta così col fenomeno delle mostre biennali internazionali, nell’intento di dare una rappresentazione letterale di quella dicotomia tra interfaccia locale e globale, a cui si accompagnano le tensioni e i benefici derivanti dalla decontestualizzazione e ricontestualizzazione della produzione culturale. Infatti, nell’indicare su grande scala e da una prospettiva ulteriore le modalità della costruzione delle mostre internazionali, mettendo in risalto la convergenza tra gli artisti e un pubblico di livello internazionale con le economie, le politiche, le persone locali, e sottolineando al contempo quell’insieme di dialogo e mancanza di dialogo che così si produce, ci si deve chiedere: cosa accade quando artisti di livello internazionale immettono i loro progetti in contesti regionali, storici, sociali, culturali e politici diversi, ovvero in ciò che l’artista Soo-Kyung Lee ha definito come “incontro temporaneo”?
Il fatto che gli artisti abbiano lavorato secondo queste indicazioni non soltanto ha prodotto un incontro dialettico della tradizione con le culture tecnologiche e dell’accelerazione, ma anche con quelle derivanti dalla transculturazione, relative ai processi della traduzione, dove ha trovato espressione un’analisi unica nel suo genere sulle modalità in cui le specificità di contesto, storia, ideologia e identità si articolano, nonostante la standardizzazione dei mezzi utilizzati. La costante degli esperimenti di questa mostra è, infatti, il materiale. Questo ha fatto emergere gli aspetti critici delle singole pratiche e lessici culturali, poiché il rafforzamento di tale costante ha agito come mediazione della nozione di differenza. Una costante che, tra l’altro, ci riporta alla formula fontaniana che privilegia il concetto sul processo, neutralizzando il dato materiale per sottolineare le diverse operazioni concettuali. Perciò, a quali conclusioni critiche conduce l’analisi concreta dei singoli progetti intrisi di individualità, orientati culturalmente, recanti i segni di precisi eventi geopolitici e nati con la funzione di mettere in risalto la costante dell’argilla? Tradizione e innovazione sono negoziate in progetti come il gabinetto in ceramica realizzato da Elke Krystufek, dotato di sostegno per il computer portatile e per il telefono cellulare, nonché di un suo autoritratto dipinto dalla ceramista Anna Maria Pacetti sulla base di una fotografia. Oppure, nelle parrucche riprese da immagini di modelle di Nina Childress, in Fuck You Art Lovers di Kristian Hornsteth, nei segni di preziosità e nelle indicazioni di genere a cui allude il coniglietto rovesciato sulla pancia di Momoyo Torimitsu.
Tuttavia, è il progetto di Soo-Kyung Lee che illustra al meglio il successo del dialogo critico che si è prodotto nel contesto di questo progetto. Arrivata ad Albisola da Seoul, l’artista era interessata alla collaborazione con i ceramisti locali, in un processo di spontaneità, traduzione e “dialogo intersoggettivo”. Anna Maria Pacetti, la ceramista albisolese che doveva seguire le istruzioni di Lee, fabbricò così dodici vasi bianchi secondo lo stile della dinastia Choson del XVIII secolo. Prima che lei decorasse i vasi le vennero tradotti dei racconti che ne narravano la storia, un esame da parte di Lee il cui intento era di esporre le idee, o i pregiudizi, di Anna Maria sulla cultura orientale in genere. I testi, tradotti dal coreano in inglese, e poi in italiano, sono andati incontro a tagli e fraintendimenti, poiché, come afferma la stessa Lee nel descrivere questa procedura, “nel corso dei diversi stadi della traduzione il senso delle porcellane bianche della dinastia Choson si è smaterializzato dai vasi al testo e poi è stato tradotto e trasformato, per materializzarsi nuovamente e ripresentarsi come vaso”. In questo modo, un’icona nazionalista coreana ha subito un processo di transculturazione trasformandosi in un oggetto ibrido, in quanto la sua “forma e la sua immagine hanno assunto caratteristiche tipiche sia della cultura italiana, sia di quella coreana”. Sotto questa veste revisionista, un simbolo del confucianesimo ora è diventato espressione di immagini fortemente sessualizzate, contraddicendo le classificazioni rigide e i sentimenti nostalgici verso ciò che i vasi significano in Corea. Lee sostiene che “i dodici vasi possono essere considerati la traccia di un incontro temporaneo tra vicini di casa virtuali. Il mio progetto non consisteva nella presentazione di una sintesi tra due culture eterogenee, o di uno scambio culturale nel quadro del tardo capitalismo, ma intendeva preservare stereotipi appartenenti all’ambito del locale, validi o meno a seconda del punto di vista, fondendoli insieme. Il progetto che ho realizzato ad Albisola è un esperimento sullo sviluppo di un nuovo passaggio aperto al mondo e all’altro.”
Come Fontana, che non aveva preso in cosiderazione il contesto locale quando era andato nelle fabbriche di Albisola e di Sèvres, anche nell’ambito di questa mostra gli artisti hanno affrontato tradizione e lavoro in termini contemporanei. Lavorando su un piano esterno al lessico della produzione culturale di ciascuno, questa mostra costruisce delle forme di mediazione rispetto al viaggio, allo spostamento, alla traduzione e allo scambio. In un’epoca in cui il lavoro manuale ha passato il timone all’intelligenza virtuale, ritornare all’argilla può apparire un paradosso, qualcosa di problematico, invece qui il materiale quasi scompare e il concetto diventa primario. Nel 1966 Jan van der Marck ha scritto che le operazioni di Fontana “cancellano la specificità del mezzo”. Le Attese di Fontana, infatti, rivelano lo spazio tra il taglio visibile e ciò che è dietro a esso: superficie versus concetto. Una premessa sperimentale che riverbera quell’intervallo, quell’inintelligibile, quell’attesa che nel lavoro di Fontana si riflettevano nello spazio tra la superficie e il vuoto creato dallo squarcio nella tela: allegoria dell’operazione messa letteralmente in pratica per questa mostra.