La materia e il procedere dell’arte (della ceramica)
Gianfranco Maraniello
Nell’ultimo decennio l’omologante fiorire di Biennali Internazionali d’Arte e le facilitate occasioni per viaggi e scambi d’informazioni hanno favorito un’accelerazione nel consumo dei prodotti culturali e l’affermarsi di strategie curatoriali funzionali alla voracità di un sistema che spesso lavora in “presa diretta”, riducendosi a un’irriflessiva cronaca del presente. Una Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea vive consapevolmente il rischio e il paradosso di consegnare a tale prospettiva anche la tradizione locale a cui si appella, quel caratteristico “saper fare” consolidatosi nel tempo in una determinata area dell’Italia settentrionale che si fa ora occasione di incontro conviviale e di verifica poetica per chi è invitato a confrontarsi con una storia da trasgredire perché le si possa corrispondere. Appartenere a una tradizione significa infatti allontanarsene, segnare una distanza produttiva che delinei lo spazio di un orizzonte e di una prospettiva, anziché la sterile impasse di un infelice manierismo. La continuità che si apre a tale contributo della differenza è offerta qui dallo scontro con un materiale, con la terra che si fa arte secondo la sapiente guida di maestri ceramisti che collaborano con nuovi interpreti di questa tecnica provenienti da svariate regioni del mondo. Ed è qui, esclusivamente nei forni di Albisola e dei centri limitrofi del savonese, che si producono le opere di una rassegna che sceglie la cadenza biennale solo per dare conto ritmicamente di un’operosità continua, non fugace, che insegna l’attesa, la conferma di un’ipotesi di lavoro che abbisogna di tempo per verificare la cottura, la resistenza, la consistenza di quell’impasto manipolato sul tornio. L’artista non esporta il proprio prodotto, non impone la propria opera al circuito globalizzato dell’arte, ma è sollecitato da una tradizione locale, di cui diviene “ospite”. Spesso si appropria di un saper fare altrui, offre il proprio contributo investendo simbolicamente una materia saggiata attraverso l’esperta mano del ceramista che ne conosce le recondite qualità e le possibili trasformazioni. Se l’arte è, in ultima istanza, sempre trasfigurazione in puro segno, la ceramica si offre come esemplare ed esplicito limite fisico, “scorza” da trattare demiurgicamente. Complicità e sfida alla materia caratterizzano, infatti, l’intervento di Giuseppe Uncini.
Tra il 1959 e il 1963 i suoi Cementarmati mutuano dall’edilizia un principio costruttivo che, intramando ferro e cemento, porta l’artista a esibire il valore poetico e pratico insito nei materiali adottati. Distanziandosi dall’ambizione al magma primordiale caratteristica di molta arte informale, Uncini palesa una sensibilità “poverista” ante litteram e adotta un rigore che troverà quanto meno analogie in diverse esperienze della Minimal Art americana. Secondo Manfred Fath1 le sculture di Giuseppe Uncini, quei blocchi talvolta geometrici con maglie di metallo che attraversano e venano la miscela di calcare e argilla, lasciano aperto allo sguardo del pubblico il procedimento della loro realizzazione come a dichiarare che l’esecuzione svolge un ruolo determinante nell’esito estetico dell’opera. Uncini sembra ora insistere su tale aspetto “processuale” del lavoro e provoca un incontro al limite della possibilità tecnica, facendo attraversare la ceramica da barre di ferro che si espongono al rischio della fusione proprio nel momento in cui l’elevata temperatura del forno dona solidità e forma all’argilla. I materiali si fanno così solidali; il ferro diviene vertebra di quella terra resa preziosa dalla mano dell’artista. L’opera è compiuta, ma serba il carattere di “rinvio”, diviene una traccia della ricerca empirica di una tensione quasi alchemica, di un equilibrio scoperto tra la rudezza del ferro e la compatta ed elegante fragilità della ceramica.
Le preziose decorazioni e la realizzazione a mano conferiscono ai prodotti in ceramica una sorta di valore aggiunto, un’immediata attribuzione di unicità e bellezza, un’aura che raramente si può riscontrare negli oggetti che l’industria produce in modo seriale. Plamen Dejanoff ne apprende la tecnica e si adopera per realizzare in ceramica alcuni modelli di buffi distributori di caramelle M&M’s, sagome ovoidali in plastica dotate di occhi, gambe e braccia che, opportunamente piegate, dispensano il loro “dolce” contenuto. L’artista non preleva semplicemente un prodotto di consumo per elevarlo a raffinata scultura, non lo espone come oggetto “ricaricato d’aura” come se fosse memore delle opere di Jeff Koons o di Haim Steinbach. Dejanoff intende sperimentare le potenzialità della manifattura ceramica nell’ambito di una più ampia trattativa che ha in corso con l’industria produttrice delle celebri caramelle, come a preparare un campionario da sottoporre a dirigenti della M&M’s per coinvolgerli in una più proficua impresa commerciale a venire. L’artista si trasforma in una sorta di agente del mondo industriale, svolge un ruolo di mediazione tra possibili partner, è un operatore che fa della propria attività un’opera, una messa in opera, fino a cambiare nome (fu Plamen Dejanov) e vivere secondo i consigli di una prestigiosa società per la gestione pubblica dell’immagine a cui si è rivolto per rinnovare la propria figura d’artista; o fino a lavorare in team e invertire i rapporti tra arte e sponsorizzazione cooperando con la casa automobilistica BMW per la gestione di tutti gli spazi espositivi o editoriali offertigli.
Davide Minuti lavora invece la ceramica secondo un sistema modulare che pare negare la specifica singolarità dei manufatti e al tempo stesso riporta tale materiale a un utilizzo pratico. Costruisce dei cilindri che unisce con opportuni anelli per realizzare un pluviale. Li decora con i tipici colori della tradizione di Albisola, ma avendo sempre in mente una grafica essenziale da web-design. Il funzionale sistema di raccordo e scarico di acqua piovana allude allo “scaricare” proprio del linguaggio informatico. Download è, infatti, un ricorrente titolo delle opere di Minuti, sensibile, quasi in una prospettiva di “ecologia dell’arte”, al convertire in potenzialità ed energia (creativa) le possibilità tecniche e tecnologiche con cui si cimenta. “Dipinge” con il PVC, trasforma l’energia eolica in spettacolari installazioni, realizza opere dotate di ruote o, comunque, trasportabili o modificabili, come a non volere assecondare la compiutezza di una forma per sollecitarci, piuttosto, a un interminabile dinamismo.
1 Cfr. Manfred Fath “Raum aus Fläche und Struktur”, in Uncini, Gli Ori, 2000, p. LXIX.