Vincenzo Cabiati

Vincenzo Cabiati, Carbone

Rossana Campo

Rossana Campo, Le bambine albisolesi  1

Rossana Campo, Le bambine albisolesi  2

Rossana Campo, Le bambine albisolesi  3

Rossana Campo, Le bambine albisolesi  4

Rossana Campo, Le bambine albisolesi  5

Rossana Campo, Le bambine albisolesi  6

Rossana Campo, Le bambine albisolesi  7

Che ci faccio io alla Biennale di Ceramica?

Il percorso è lo stesso, ma fatto all’incontrario: io che da bambina abitavo in Piazza della Libertà, proprio di fronte al Municipio di Albisola Superiore, me ne uscivo da casa al mattino un po’ confusa e rintronata (sempre avuto problemi a immettermi nel mondo, e soprattutto al mattino presto) mi prendevo la cartella e attraversavo il paese. Mi fermavo a comprare la focaccia dal panificio Pescetto (panificio della famiglia del mio compagno di classe Riccardo detto Ricchi) e poi lemme lemme attraversavo i giardini che costeggiano villa Gavotti e me ne andavo a scuola (la scuola era di fronte all’autostrada, dietro il Bar Mara e lo Studio Ernan Design). Lì incontravo il mio amichetto Damiano Rossello e vari altri compagni. Con Damiano andavamo molto d’accordo, ci piaceva a tutti e due fare un po’ i buffoni, ci piaceva fare le imitazioni dei compagni o anche dei comici della tivvù. Ci piaceva da matti fare Cochi e Renato che cantavano E la vita l’è bela. Damiano era veramente un campioncino nel disegno e una volta per il mio compleanno mi aveva regalato un incredibile fungo rosso e marrone di ceramica che ho tenuto sul mio comodino per chissà quanti anni. Adesso siamo nel 2003 e un po’ di anni sono passati anzi porca miseria ne sono passati più di trenta, e Roberto Costantino mi ha invitata a partecipare alla Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea ad Albisola e... be’, mi è sembrata veramente una bella coincidenza. Una cosa un po’ magica. Già perché di colpo mi sono ritrovata a fare lo stesso percorso (ma all’incontrario) che facevo da bambina per andare a scuola. Adesso al mattino (sempre con una certa difficoltà a entrare nel mondo) me ne uscivo dall’albergo vicino all’autostrada, percorrevo i giardini che costeggiano villa Gavotti, compravo un pezzo di focaccia dal panificio Pescetto (oggi c’è Ricchi) e me ne andavo a incontrare Damiano Rossello nella sua bottega. A parte queste coincidenze, voglio raccontare perché questo fatto ha per me qualcosa di un po’ magico. Dopo avere scritto alcuni romanzi (sette per l’esattezza) mi sono avvicinata alla pittura. Per me che non ho fatto nessuna scuola d’arte e che alle elementari non ero davvero granché in disegno mi sembrava una grande sfida, mi dava la sensazione di rimettermi in gioco e andare a esplorare nuovi territori. Ho cominciato a lavorare su grandi tele con i colori a olio e i pastelli e mi piaceva usare il linguaggio dei colori, delle mani, dei gesti, di quello che scappa al controllo razionale e alle corazzine che cominciano a formarsi man mano che ci allontaniamo dalla nostra infanzia (e dal carico di emozioni, magoni, gioie assolute e infelicità profonde che questa porta con sé). A volte mi sono detta che cavolo sto facendo? ma poi c’erano i lavori e le parole dei pittori che ho sempre amato, Dubuffet e Asger Jorn per esempio (guarda un po’, altra coincidenza, un pittore che ha vissuto a lungo a Albisola!) e il senso di libertà e di apertura a nuove possibilità che i loro lavori mi hanno sempre dato e così ho continuato a dipingere, e a riconnettermi al lato infantile, non addomesticato, al lato vivo e maldestro della vita (della mia vita). Insomma, la pittura mi fa sentire piacevolmente insicura, non professionista, non “adulta”. Per questo quando è arrivato l’invito di Roberto Costantino mi è sembrata veramente una cosa un po’ magica, perché potevo andare ancora più dentro a questo percorso, cimentarmi con quella cosa che il mio amichetto Damiano Rossello faceva così bene da bambino, quella cosa un po’ magica che era dare forma alla terra e riempirla di colori. E farla proprio ad Albisola, dove ho passato la mia infanzia. Così quando al mattino uscivo per andare a fare la ceramica mi sembrava che avevo finalmente messo mano a qualcosa che stava lì da tempo e voleva uscire e dire la sua. E che mi piacerebbe, ora, non abbandonare e non dimenticare.

Rossana Campo

Carlos Carlé

Carlos Carlé, Wall

Mauro Castellano e Leonardo Gensini

Leonardo Gensini, Disegno preparatorio per l'opera in ceramica 1

Leonardo Gensini, Disegno preparatorio per l'opera in ceramica 2

Leonardo Gensini, Disegno preparatorio per l'opera in ceramica 3

Leonardo Gensini, Madreforma

Leonardo Gensini, Madreforma

Madreforma

Il ceramista ha dita particolari, sensibili come quelle di un musicista. Ha in testa l’idea della terra quando da principio impasta, bagna, scava, graffia, modella la materia umida e morbida. Si sporca le mani. Il tocco cambia in un tocco delicato e ancora muto quando l’argilla asciutta diventa fragile, imprevedibilmente fragile. Poi il fuoco che indurisce fa la terra forte e vibrante e forgia tutt’altra fragilità. Richiede ancora un altro tocco, una fragilità sonante. L’artigiano sente l’integrità del manufatto solo quando con destrezza lo suona e sa come farlo vibrare a lungo. È però noto a tutti, nell’uso quotidiano che se ne fa, il suono acido della ceramica. È un suono familiare, un contatto arcaico, iniziale, naturale come il suono dell’acqua. La ceramica che vuole farsi ascoltare nelle sue forme d’uso. Keras che contiene e protegge.

Leonardo Gensini



Mauro Castellano, Brevi onde di ritorno (figurazioni pianistiche). Trascrizione per pianoforte dei suoni delle ceramiche di Leonardo Gensini

Mauro Castellano, Brevi onde di ritorno (figurazioni pianistiche). Trascrizione per pianoforte dei suoni delle ceramiche di Leonardo Gensini, 2, 3

Mauro Castellano, Brevi onde di ritorno (figurazioni pianistiche). Trascrizione per pianoforte dei suoni delle ceramiche di Leonardo Gensini, 4, 5

Mauro Castellano, Brevi onde di ritorno (figurazioni pianistiche). Trascrizione per pianoforte dei suoni delle ceramiche di Leonardo Gensini, 6, 7

Di recente ho visto nascere dal tornio di Leonardo Gensini piatti e strumenti a percussione nuovissimi e stupefacenti che, percossi e lasciati vibrare, liberano nell’aria meravigliose risonanze. Questi rintocchi ceramici avevano colori —spesso il musicista vede colori nei suoni — simili alle “campane sul lago calmo dei ricordi” (De Pisis), ricordi che per me rimandano alle campane veneziane, assai simili alle mie ricerche sulle risonanze pianistiche.
... Nel lavoro si di Leonardo sugli strumenti ceramici di risonanze sono presenti grafie musciali che ne prescrivono l'utilizzo, come spartiti veri e propri... I miei materiali pianistici di accordi e risonanze andranno a sovrapporsi contrappuntisticamente (è una pratica antica, in musica) con le pittografie ceramiche: nel mio caso adopererò soltanto china su carta.

Mauro Castellano



Giuseppe Chiari

Giuseppe Chiari, Pezzo per pianoforte e ceramica

Giuseppe Chiari, Disegni di strumenti musicali in ceramica

Giuseppe Chiari, Disegni di strumenti musicali in ceramica

Giuseppe Chiari, Pezzo per pianoforte e ceramica

Giuseppe Chiari, Pezzo per pianoforte e ceramica

Giuseppe Chiari, Pezzo per pianoforte e ceramica

Giuseppe Chiari, Pezzo per pianoforte e ceramica

Pezzo per pianoforte e ceramica

Sono qui in una sedia fra le
tante allineate di questa grande sala.
Davanti a me lontani a un livello
superiore di circa un metro 50 60
persone vestite di nero.
Ognuna suona.
Sta suonando uno strumento musicale.
Il loro suonare collettivo è organizzato.
Una scrittura di musica aperta
davanti a ogni strumentista da l’indicazione.
Un uomo in piedi al centro su un
livello di 30 centimetri più alto
fa dei gesti che indicano l’andamento.

Musica.
Perché questo?

Giuseppe Chiari



Nicola Cisternino

Nicola Cisternino, A-naì-lí-sˆu (Lettera al proprio Dio)  1

Nicola Cisternino, A-naì-lí-sˆu (Lettera al proprio Dio)  2

Nicola Cisternino, A-naì-lí-sˆu (Lettera al proprio Dio)  3

Nicola Cisternino, A-naì-lí-sˆu (Lettera al proprio Dio)  4

Nicola Cisternino, A-naì-lí-sˆu (Lettera al proprio Dio)  5

Preghiera per Baghdad

A-naì-lí-sˆu (Lettera al proprio Dio)
...Perché è nella preghiera che Iddio tesse i fili della nostra fraternità: degli sposi fra loro, dei genitori con i figli, dei fratelli; perfino i fratelli di fede con i fratelli di nessuna fede, oppure tra fratelli di diversa fede. Perché i confini dell’uomo di preghiera sono gli stessi confini di Dio, cioé nessun confine. Se abbiamo appunto lo spirito di preghiera: perché allora è avere lo stesso Spirito Santo di Dio in noi, a gemere con gemiti ineffabili, a pregare per noi, a cominciare lo stesso nostro volere e a portarlo a compimento. Questo spirito che si libra sopra gli abissi...
(David Maria Turoldo)

Ero lì a leggere quel pomeriggio il libricino Preghiera come lotta di Padre Turoldo, che da troppi mesi attendeva che lo aprissi apprestandomi a dare corpo all’idea-progetto di una Preghiera per Baghdad sollecitatami dall’amico-compagno di classe bussottiana Mauro Castellano per la Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, quando dalla radio si levarono commenti e riflessioni (amarissime…) che nello scellerato (ma quanto programmato?) saccheggio della Baghdad “liberata” si stava lasciando saccheggiare anche l’arcinoto Museo Archeologico. Se mai bombe intelligenti avessero raggiunto il mostruoso dittatore che si voleva abbattere, bombe molto più deflagranti, nei ventri-caverne della storia e della memoria, stavano raggiungendo il vero cuore della terra di Uruk, della città d’Ur, di Babilonia, nell’assoluta “incoscienza” dell’oggi. Chissà se mai, gli scribi delle cuneiformi scritture di allora — l’invenzione stessa della scrittura, appunto — avranno immaginato che ciò che essi stavano promulgando a tutta l’umanità futura, un giorno a nulla sarebbe servito contro i sempre rinnovati “barbari”, di ogni tempo. Associazioni emotive, suggestive certamente, ma che lasciano del vero amaro in bocca. In quella stessa cronaca radiofonica, si levava la voce di un noto archeologo italiano tanto legato a quei siti archeologici che diceva: “...esisteranno anche le cosiddette bombe ‘intelligenti’, ma purtroppo non esistono certamente le bombe ‘colte’”.
A-naì-lí-sˆu (Lettera al proprio Dio) è una composizione-installazione per pianoforte (quello di Mauro Castellano, a cui è “fraternamente” dedicata), sabbie (tante), monitors e “partiture di pietra”, queste ultime realizzate proprio in terracotta nelle botteghe e con l’insostituibile aiuto dei sapienti maestri ceramisti di Albisola, che segue, naturalmente, la mia creazione negli ultimi anni delle Preghiere tibetane. Preghiera in quanto “entità vibrante” e granello della nostra intima divinità, come ci viene insegnato dagli antichi testi lamaisti tibetani, in primis dal Libro tibetano dei morti.
A-naì-lí-sˆu (Lettera al proprio Dio) è il nome di un involucro-busta di terracotta (attualmente della celebre collezione di tavolette cuneiformi di Louise Michail) di cm 7x5,6 di provenienza sconosciuta del periodo paleo-babilonese, al cui interno è ancora ben sigillata (non tutti i “messaggi” dovranno essere letti) un’altrettanto piccola tavoletta “illeggibile”, come del resto il nome dello stesso Dio secondo l’insegnamento della Torah.
Da tanti anni aspiravo a realizzare alcune delle mie partiture dei Graffiti Sonori — le scritture con le quali si identifica dagli inizi molta mia ricerca compositiva — su pietra (certamente la materia più coerente); ne feci solo due piccoli esperimenti su tavolette di lavagna “prese” nell’Isola di Saint Michel alcuni anni fa. L’alfabeto cuneiforme, in questo caso, viene liberamente preso per assumerlo dalla dimensione visiva della “lettura” alla dimensione sonora, quella originaria del “verbo”, per farsi lineare scrittura — oltre ogni simulacro notazionale — trapasso di pensiero e di azione dell’atto dell’immaginare e dell’ascolto (Silenziosilenzio) a quello della manifestazione sonora (Musicanto).
A-naì-lí-sˆu (Lettera al proprio Dio) potrà essere eseguita nella sola versione da concerto (le “tavolette” come partitura) o nella sua versione “completa” di concerto-installazione rituale secondo le seguenti azioni:
a) su una scena colma di sabbia vi è, al centro, un pianoforte al di sotto del quale sporgono, dalle piccole dune, dei frammenti di 4 tavolette di terracotta (immerse per gran parte nella sabbia). Intorno, a non molta distanza dal pianoforte, sono semi-immersi nella sabbia altrettanti monitors (4). Sotto il pianoforte un bambino (5-6 anni) — o, in alternativa, l’interprete stesso che in questo caso si aggira attorno allo strumento — vi sta giocando e ritrova le “tavole”. Ne porge la prima (e così di seguito) al pianista che arriva; il pianista pone la tavoletta sul leggio ed esegue la composizione.
b) Dopo alcuni secondi dall’inizio il primo monitor si accende con l’immagine del tipico “formicolio” di assenza segnale (ma i puntini sono di color sabbia, come i granelli...); gradualmente durante lo svolgimento della composizione, l’immagine da “polverizzata” si condenserà in quella della tavoletta... per restarvi come immagine fissa.
c) Alla fine dell’esecuzione delle quattro “tavole-partiture”, i monitors (divenuti “tavole” anch’essi) gradualmente “attivati”, resteranno accesi con l’inquadratura delle tavole nel graduale e completo buio di sala.

Nicola Cisternino



Plamen Dejanoff

Plamen Dejanoff, Il volto felice della globalizzazione (fatto ad Albisola)  1

Plamen Dejanoff, Il volto felice della globalizzazione (fatto ad Albisola)  2

Plamen Dejanoff, Il volto felice della globalizzazione (fatto ad Albisola)  3

Trisha Donnelly

Trisha Donnelly, Untitled

Rachmaninoff

Le urla, nello studio, non erano rivolte a me. Era tutto normale. Anche Caruso cantava soltanto per mangiare. E ha continuato a farlo.
Questo vi dà un retroscena per riuscire a riflettere. E per ascoltare. E per comprendere che uno studio è uno studio è uno studio. Addirittura, io non ho uno studio, perché il mio è nella biblioteca, o è quando si passeggia. Ma la sensazione è la stessa. Il rumore generato dal lavoro non dovrebbe essere alterato. Ma può esserlo se si vuole. Pensare è lavorare. E il tempo crea il tempo per entrambe le cose.
Non c’era nessuna radio accesa. Di tanto in tanto, la TV trasmetteva immagini di ciclismo (che è molto divertente da guardare), mentre qualche visitatore di passaggio si fermava per parlare un po’ con Giovanni, Matteo, Silvana o Piero. Frasi brevi. Molti cenni del capo e gesticolare di braccia. Ma per la maggior parte del tempo, il suono dell’argilla sbattuta per mandar via l’aria dalla terra e quello del tornio bagnato che spargeva fango intorno. Mentre io venivo istruita sulla storia del luogo con rapide lezioni filtrate da Simona. I piatti appesi al muro in cui si condensava il passato della fabbrica Ceramiche San Giorgio: la foto di Giovani Poggi con Wifredo Lam incorniciata proprio come l’immagine di Poggi col Papa, proprio come l’immagine di Poggi col ciclista.
Tutto è preciso. E meraviglioso. E regolare. Tutto nello stesso momento.
Ad Albisola le finestre e le porte dei palazzi sono incorniciate da immagini in trompe l’oeil: cherubini ed elaborati abbaini di marmo. Tiziana mi ha raccontato che un tempo, quando il marmo e le pietre costavano molto, gli artigiani utilizzavano il trompe l’oeil per decorare i palazzi, con una precisione ricca di riferimenti. Le 3 dimensioni tradotte in 2.
Questo è quanto. Una risposta stupida a una domanda stupida. Sul fatto che il lavoro sta nell’osservazione. Che il tentativo è tutto lì. Che il tempo e la prospettiva creano il valore.
Ma qualsiasi cosa.
E tutti sanno già tutto questo.
Perciò ho detto a Poggi: “Questa cosa farà il suono più piccino che si possa trovare in Rachmaninoff.”
E lui ha detto (in italiano):
“Sette campane per sette note. Sì.”
E io ho assentito col capo.
E lui ha fatto lo stesso.
Mentre Alberto in macchina ascolta Ecstasy di Lou Reed.
E ora Caruso è nel freezer. Con gli altri uccelli.
Quando sono tornata a casa ho mandato loro prugne della California.

Untitled, 2003

Piccoli oggetti in ceramica da inserire nel corpo del pianoforte. Da usare solo con Rachmaninoff. Quando verranno raggiunti i momenti più bui della composizione, i campanellini suoneranno.
Una grande distanza dal profondo.

Trisha Donnelly



Wang Du

Wang Du, Tapis du piéton (serie 1-a)

Tappeto

La ceramica per me rappresenta semplicemente una delle possibili forme d’espressione disponibili nel mondo dell’arte. È un materiale usato non soltanto per motivi pragmatici e decorativi, ma anche per ragioni concettuali, proprio come il video e il film. Si può decidere di utilizzarla o di modificarla, ma quando alla fine si attua quella relazione copulativa tra l’argilla e la propria idea, la ceramica libera la sua eccezionale energia latente.

Wang Du

Sylvie Fleury

Sylvie Fleury, Fountain

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