Scherzi privati e piaceri pubblici
Roberto Ohrt
Marco Lavagetto, La Casa di Asger Jorn ad Albisola
“... nel buon ricordo del tempo passato
che non vuole finire e tutti affligge
con la sua ostinata presenza.”
Asger Jorn, 1964
Le coordinate principali dell’Internazionale Situazionista – la fondazione nel luglio del 1957 e lo scioglimento all’inizio degli anni Settanta – coincidono in modo sorprendente con le date più importanti della storia del giardino di Albisola. Asger Jorn acquistò il terreno sulle alture della cittadina marinara – all’epoca piuttosto difficile da raggiungere e in cattive condizioni – nella stessa estate in cui con alcuni amici si recò a Cosio d’Arroscia, un labirintico paesino di montagna sulle Alpi Marittime a un’ora circa di macchina da Albisola, dove i piani e le preparazioni di una nuova Internazionale divennero finalmente realtà. Quindici anni più tardi, nel settembre del 1972, Guy Debord scrisse De l’architecture sauvage, il noto testo sull’opera coloratissima nata nel frattempo, suo contributo per il superbo volume illustrato, Le Jardin d’Albisola. Sei mesi prima, Debord aveva dato alle stampe uno scritto non altrettanto consolatorio firmato da lui e da Gianfranco Sanguinetti, La vera scissione dell’Internazionale, il famigerato documento conclusivo del movimento, ultimo atto di un tragico dramma che, da una disillusione all’altra, aveva distrutto le pregiate idee di molti contemporanei. In questo modo, anche l’ultimo schermo di proiezione, l’Internazionale Situazionista, non c’era più. Nel maggio dell’anno successivo, Jorn morì e la proprietà del giardino passò al Comune.
Così, un bel giardino affacciato sul mare e una moderna minaccia rivoluzionaria hanno condiviso la stessa finestra sul tempo. Negli anni Settanta, i seguaci delle idee e delle posizioni situazioniste non avevano la benché minima idea di questi collegamenti. Manipolavano abilmente intenzioni e dimensioni nelle quali un giardino non avrebbe trovato alcun posto, sia in ragione della sua modesta entità sia, soprattutto, come argomento. Il fatto che Debord avesse considerato importante spendere così tante parole sulla “proprietà privata” del suo amico era comunque sfuggito ai più e, nel migliore dei casi, li avrebbe sorpresi. Naturalmente, Debord stesso presentava questa “propriété privée” fra virgolette, poiché sapeva del paradosso insito nel suo testo, conosceva le limitazioni, gli avvertimenti e le misure precauzionali che dovevano necessariamente accompagnarla. Conosceva anche i limiti di tutti quelli “che ultimamente hanno preteso basare la loro grande capacità d’immaginazione unicamente sull’affermazione di un rivoluzionarismo totale, ma totalmente inutilizzato”.
Naturalmente, anche alcuni propugnatori della vera teoria situazionista avrebbero dovuto sentirsi interpellati come “rivoluzionaristi” di tal sorta e Debord sottolinea, in opposizione alla facondia ingegnosa con cui essi seppero evitare ogni azione pratica, la passione e il talento di Jorn: “... essi non gli hanno mai impedito di intervenire, anche nella misura più piccola, in ogni campo a lui accessibile”.
Negli anni Settanta, l’Internazionale Situazionista era ormai qualcosa di completamente diverso rispetto a quando era stata fondata. Dopo l’inattesa sparizione del suo modello di riferimento, i vari seguaci, pur litigando appassionatamente sulle questioni più diverse per il suo rilancio, avevano raggiunto facilmente l’unione su un punto: il campo d’azione che aveva caratterizzato l’inizio della storia era stato sorpassato da tempo e divenuto perfettamente irrilevante. Già nel 1962 l’Internazionale Situazionista aveva troncato in maniera irrevocabile i rapporti con l’arte, relegata da quel momento in poi all’ambito della preistoria; nel migliore dei casi, l’arte veniva liquidata come un’inevitabile follia, una malattia infantile del movimento. Alcuni vollero pensare questa frattura addirittura come la prova generale dell’Internazionale Situazionista, che negli anni successivi avrebbe immunizzato i situazionisti da analoghe seduzioni. Era un rosario fatto da un mucchio di convinzioni piuttosto dure a morire e sia che si trattasse di disprezzo dell’arte, di costruzione hegeliana della storia o di disciplina leninista, esse seguivano un modello che corrispondeva al gusto del tempo. Naturalmente, all’epoca – e per lungo tempo – tutto ciò impedì che si guardasse al passato. Da questo punto di vista, De l’architecture sauvage non poteva che apparire un’assurdità, un frammento rivolto all’indietro, in contraddizione con la logica del processo storico.
Le cose non andavano diversamente con Contre le Cinéma, il bizzarro libro pubblicato nel 1964, più o meno a metà tra la fondazione e lo scioglimento del movimento, ovvero vicino a quella terra di nessuno dalla quale le certezze dell’ultima tappa avrebbero impedito la visione sui primi anni. Anche Contre le Cinéma non si adatta all’orientamento unidirezionale che, intorno al 1964, decise di considerare il corso della storia come qualcosa di già stabilito. Contre le Cinéma rappresentava un disturbo alla pretesa egemonica che l’Internazionale Situazionista manteneva nel conflitto contemporaneo. Ogni segno della sua influenza veniva registrato e ogni dichiarazione commentata. In questa regia non c’era posto per le lacune. Come fu possibile, allora, la pubblicazione da parte di Jorn di un libro su Debord e i suoi film, più di due anni dopo essere stato eliminato dall’organizzazione? E in ogni caso, come aveva osato affrontare questa sfera fondamentale? Oltre a ciò, come se non fosse bastato, aveva definito il situazionista Debord un grande artista, il segreto creatore delle parole d’ordine dell’epoca. Parlava del suo successo nell’arte, certamente rifiutata, comunque un’illuminazione quanto mai intensa. Una contraddizione lasciata aperta da decenni, poiché sorprendentemente sino a oggi le valutazioni di Jorn sull’originalità artistica del suo amico sono state discusse ben di rado. In realtà, sono ben più degne di lettura di tutto ciò che da poco, con ben quarant’anni di ritardo, è stato occasionalmente pubblicato sul “genio” di Debord e sull’eccezionale significato della sua “opera iniziale”, secondo l’interpretazione mainstream di oggi.
Debord fu notoriamente uno dei maggiori responsabili della linea di demarcazione che i Situazionisti frapposero tra sé e l’arte nel 1962. Quando, nel 1972, egli tese nuovamente l’arco delle sue riflessioni sull’architettura selvaggia, rivolgendolo all’indietro su una discussione che si era verificata nell’Internazionale Situazionista nel 1960, lo fece in modo sorprendentemente aperto verso la parte artistica della storia e tuttavia non privo di impaccio. Le sue frasi girano virtuosamente intorno alla questione di cosa fosse possibile o permesso ai situazionisti, tra l’ampiezza dell’esigenza di una critica radicale – abbastanza spesso sinonimo di rifiuto senza compromessi – e i piccoli passi verso una realizzazione pratica, per esempio, di un giardino. Debord colma la distanza con alcune parole e frasi che mettono in gioco tutte le pedine, muovendole in modo sorprendentemente artistico, ma il suo gioco di scambio non scioglie la contraddizione.
“Non si sarebbero potuti acquietare i situazionisti, verso il 1960, con qualche riformismo lucidamente recuperatore, dando loro due o tre città da costruire, invece di spingerli agli estremi, costringendoli a scatenare nel mondo la più pericolosa sovversione che si sia mai vista? Ma altri ribatteranno di certo che le conseguenze sarebbero state le stesse e che, cedendo un po’ ai situazionisti, che già non intendevano accontentarsi di poco, non si sarebbe fatto altro che aumentare le loro pretese e le loro esigenze e si sarebbe soltanto giunti più rapidamente allo stesso risultato”. Queste, le parole con cui Debord conclude il suo testo ripercorrendo fondamentalmente la traiettoria verso lo “stesso risultato”, senza considerare la questione di quale fosse esattamente, ora, il posto del giardino. Alcune righe sopra si riferiva indirettamente a “Guy Debord e il problema dell’infame”, l’introduzione di Jorn a Contre le Cinéma. Citava – cambiandole leggermente – le parole con cui Jorn apriva il suo discorso: “Sarebbe stato meglio per l’umanità se queste persone non fossero esistite”. Jorn all’epoca aveva parlato solo di un uomo, ovvero di Debord.
La sceneggiatura di Critique de la Séparation è pubblicata in Contre le Cinéma. Questo film di appena 18 minuti fu terminato nel 1961, ovvero in quella che fu la fase decisiva per la questione dell’arte, nonché della realizzazione del progetto situazionista; fu anche l’ultimo film girato da Debord durante l’esistenza dell’Internazionale Situazionista. Oggi è possibile controllare la cronologia degli eventi nella Correspondance di Debord (indizio di un altro tentativo di privatizzazione della storia collettiva). Il secondo volume riporta il protocollo dei primi mesi del 1961, quando gli eventi si susseguirono con una velocità davvero da mozzare il fiato: gennaio, consiglio centrale e ideazione del progetto Utopolis; gennaio/febbraio, montaggio di Critique de la Séparation; aprile, cacciata di Maurice Wyckaert e dimissioni di Jorn.
Dopo la conferenza di Londra alla fine di settembre del 1960, i situazionisti si riunirono più volte, come all’inizio di novembre a Bruxelles, per precisare le proprie idee riguardo l’architettura e soprattutto procedere a livello pratico; discutevano degli appoggi situazionisti e dei criteri di costruzione della città, oppure di navi, per la loro speciale condizione giuridica esterna al territorio su cui una nazione può esercitare la propria sovranità, di castelli e gruppi di isole. In quel periodo, Jorn scrisse una lettera alla sua cara Jacqueline de Jong, facente parte dell’Internazionale Situazionista, che annunciava novità strabilianti. In Veneto, Jorn aveva visto Paolo Marinotti, uno dei suoi collezionisti italiani. “Paolo è molto interessato alla costruzione di una città situazionista fantastica. Pensiamo di chiamarla Utopolis. Si vorrebbe costruirla da qualche parte in Italia. Che ne pensi? Naturalmente, è top secret, poiché non è stato fissato ancora nulla, ma penso che ci riusciremo. Come vedi, quest’opera pratica corrisponde in modo sorprendente al tuo lavoro a Bruxelles”. Ciò che Jorn voleva far capire, in definitiva, era che il milionario era pronto a finanziare la costruzione di una città situazionista. Era a questa offerta che alludeva Debord in conclusione del suo testo sul giardino di Albisola, quando diceva che “non si sarebbe potuto acquietare i situazionisti, verso il 1960 ... dando loro due o tre città da costruire ...”. Dunque non era assolutamente una questione secondaria e per questo la prima frase cominciava così: “Si sa che i situazionisti, per cominciare, volevano perlomeno costruire delle città”.
Realmente famosa fu, “per cominciare”, l’idea di rivoluzione, una necessità irriducibile alla quale i situazionisti sono sempre stati fedeli. A tal proposito, tra le altre cose, essi avevano in mente una grande riorganizzazione della realtà urbana e a questo fine avevano sviluppato la più affascinante delle visioni. La rese famosa la sua particolare plasticità che, non soltanto in ambito architettonico, distingueva nettamente dalle altre forme di propaganda “rivoluzionaria” tutti i progetti situazionisti abbozzati prevalentemente negli anni Cinquanta. Questo riguardava solo in minima parte il piano concreto del 1960 e la sua possibilità di realizzazione; l’Internazionale Situazionista, comunque, non aveva fatto nulla per renderlo pubblico. Nel migliore dei casi, ci sono state dicerie, cosa che nell’incredibile contesto finanziario di cui si trattava non può meravigliare nessuno. Le attività intense dell’inverno di quell’anno – Debord girava il suo film fermandosi a volte 14 ore al giorno sul set – corrispondevano alle loro prospettive straordinarie. Nemmeno sei mesi dopo, però, all’inizio della primavera del 1961, l’Internazionale Situazionista aveva già accettato le “dimissioni” di Jorn. In proposito, si disse che il suo successo come pittore aveva assunto dimensioni tali da essere divenuto incompatibile con la sua appartenenza all’Internazionale Situazionista. Come potevano, allora, conciliarsi con questo le parole scritte su di lui da Debord nel 1972: “Jorn è una di quelle persone che il successo non trasforma, ma che continuamente trasformano il successo in altre scommesse”?
In Critique de la Séparation, Debord indica ancora i suoi amici Wyckaert e Jorn come sostenitori delle idee da lui presentate nel film sulle prospettive dell’impresa comune, ma anche rispetto al senso di mettere in scena un messaggio per il cinema. E ciò che egli dice sulle “zone di una città” in questo contesto, vale anche per le sue immagini. Esse sono “leggibili … su un piano preciso. Il senso, però, che esse hanno avuto per noi sul piano personale non si può trasmettere, come tutta la segretezza della vita privata della quale non si possiede mai altro che una ridicola documentazione”. Alla fine del cortometraggio, egli torna ancora una volta sulla differenza tra i due significati del termine “privée”, privato, oppure sottratto: “È assolutamente normale, che un film sulla vita privata sia composto unicamente di private jokes”.
Già Critique de la Séparation si muoveva perciò fra alcune costruzioni paradossali. Persino la svolta poetica che con un magico gesto faceva vedere la perdita nel possesso, era un private joke, un ammiccamento tra dialettici ai quali non importava se l’allusione non veniva subito colta interamente dai suoi destinatari. Il film fa in modo che la linea non porti alcuna certezza. “Prima che si sapesse cosa si dovesse fare o dire, eravamo già lontani. Abbiamo abbandonato il tracciato. Siamo davanti al mare. Non possiamo migliorarci”. La stessa impresa collettiva dell’Internazionale Situazionista era un gioco con tutti gli elementi del caso: la fatalità, una posta alta, delle perdite, la tensione, la stanchezza, le sorprese o la fortuna. Quando nel 1972, guardandosi indietro, presenta tutta l’ampiezza del campo da gioco insieme con le possibilità rimaste inutilizzate, Debord sottolinea in modo più marcato le deviazioni dal tracciato e l’apertura della situazione. Evidentemente, dopo che il sipario era stato abbassato, egli si riteneva esonerato dal dovere di scrivere la storia al vaglio della quale, prima, dovevano essere necessariamente sottoposti tutti gli elementi, poiché non temeva più di concedere nuovamente una maggiore importanza alle prospettive prima maledette. Lo stesso vale per il giardino, anche se nell’ultima frase sceglie di eliminare le indicazioni verso le altre vie, le vie traverse verso lo stesso obiettivo.
L’Internazionale Situazionista, d’altra parte, non poteva essere analizzata come un gioco il cui finale a sorpresa sfugge al pubblico, come una barzelletta senza la battuta finale, mentre le parti in causa sono rientrate nel privato, magari in un bel giardino. Si trattava, invece, della realizzazione dell’arte nell’ambito della società e delle sue condizioni di possibilità, era una nuova costruzione sociale che non ubbidiva al sacrificio e alla sua logica. Critique de la Séparation è il poema cinematografico di questo progetto rivoluzionario, il tentativo di dargli una voce con immagini e pensieri all’altezza delle nuove tecnologie e dei media attuali, l’abbozzo poetico di una nuova possibile lingua rivoluzionaria. Riguardo al film, si poneva inevitabilmente la questione di come sia possibile costruire un ambito pubblico senza ricorrere al potere, alle strutture istituzionali esistenti e alla comunicazione fondata sull’eliminazione della partecipazione e sulla separazione tra spettatori e attori. “Ho appena incominciato a farvi capire che io non voglio giocare a questo gioco” – dice Debord in conclusione di Critique de la Séparation.
Dopo Sunset Boulevard (1950), la critica all’industria cinematografica non poteva ignorare in quale misura al cinema, e nella stessa Hollywood, essa si trovasse già rappresentata. La riflessione sullo star system era diventata un argomento dei mass media, una parte della situazione di accecamento nell’ambito della quale il pubblico leggeva la propria miseria come la sofferenza dei suoi eroi cinematografici. Attori di spicco come Ava Gardner e Humphrey Bogart erano ingaggiati a questo scopo, come nel 1954 per The Barefoot Contessa, un film piuttosto asciutto che racconta la costruzione di una star di Hollywood e il prezzo che l’attrice di successo deve pagare per la propria celebrità, in termini di perdita della propria vita privata: solitudine, mancanza di rispetto, desideri inesauditi, negazione della nostalgia e solitudine nel piacere che la protagonista, nonostante tutto, riesce a ottenere. Il fatto che su questa strada la protagonista non porti le scarpe è il tema dominante del film, il cui finale a sorpresa – il ruolo dei poveri nello squallore della vita privata della protagonista – è da lei condiviso con un solo confidente (e col pubblico del film), è il private joke a cui si ritorna di continuo, un segno dell’origine da ben diverse condizioni della protagonista e delle sue avventure sessuali, di cui va in cerca all’interno di questo mondo diverso per la strada o nei cortili, come una ladra, e per le quali alla fine deve morire.
Inoltre, The Barefoot Contessa è un film in cui la storia resta muta – più spesso e più a lungo rispetto all’utilizzo convenzionale di questo espediente stilistico – commentata unicamente da una voce fuori campo (Debord adoperò questa tecnica in modo pressoché esclusivo). Private delle loro voci, le immagini hanno un effetto impercettibilmente straniante e leggermente fatalistico, afflitte dalla permanenza del passato. Nello stesso tempo, la regia ha esplicitamente rafforzato col montaggio l’effetto patetico dei gesti, così tutto ricorda le immagini statiche dei fotoromanzi. Il narratore, infatti, sta tutto il tempo in un cimitero italiano davanti alla tomba della star, una scultura a grandezza naturale che è il suo ritratto di pietra. Questa è solo una segnalazione, poiché la questione del senso di un film, o dell’arte in generale, nell’Internazionale Situazionista è stata spesso esasperata nella tesi stucchevole secondo cui la vita sarebbe pietrificata nell’opera d’arte, come quella scultura sulla tomba, destino di una contessa scalza.
I particolari della discussione su Utopolis non sono stati assolutamente spiegati da Debord, come fossero un private joke. La sua realizzazione collideva probabilmente col sistema della proprietà privata, perciò con la questione su chi avesse il diritto, prima o poi, di ridurre in cenere la “fantastic situationistic city” se gli fosse piaciuto. Un riflesso dell’esplosione immaginaria che all’epoca pose termine a ogni ulteriore trattativa con lo sponsor appare in De l’architecture sauvage, nel momento in cui Debord descrive con maggior precisione le sculture e il labirinto nel suo insieme, ponendo il giardino di Jorn sullo stesso piano del progetto dei situazionisti, ma necessariamente come il suo negativo, ed evoca a tal fine ancora una volta un’immagine paradossale: “A chi non dimentica i rapporti conflittuali e appassionati, e per forza di cose rimasti assai a distanza, tra i situazionisti e l’architettura, [qualche riga prima, Debord aveva detto del giardino: “ciò che è dipinto e ciò che è scolpito, le scalinate mai uniformi tra i dislivelli del suolo, gli alberi, gli elementi aggiunti, una cisterna, un po’ di vigna, i più diversi tipi di scarti sempre benvenuti, buttati là in un disordine perfetto”] questa deve apparire come una specie di Pompei alla rovescia: i rilievi di una città che non è stata edificata”.
Come positivo scolorito, ma assolutamente reale e incastrato a meraviglia nel profilo della collina, il giardino è sempre lì, affacciato sul Mediterraneo, anche se purtroppo ha perso i suoi colori. Con mano sicurissima, Jorn aveva indicato il segno del valore artistico di Debord nel fatto di “avere in mente qualcosa di meglio, al quale paragonare ciò che si rifiuta”. Questo è davvero il tratto distintivo degli artisti, la capacità di riconoscere le condizioni per qualcosa di meglio, di non rivelare l’idea nel percorso verso la sua realizzazione e di avvicinarsi sempre più all’opera grazie al confronto col materiale. Jorn si era unito con Umberto Gambetta quando aveva creato il giardino e Gambetta, fino a una decina d’anni fa, aveva provveduto affinché lo scenario costruito insieme all’amico non perdesse nulla del suo valore e della sua energia. Dopo la sua scomparsa, il giardino è un paradosso lasciato da Jorn al Comune per testamento. Come può essere reso accessibile al pubblico un pezzo di terra così speciale, nato come giardino nell’ambito di un utilizzo privato, senza che la sua istituzionalizzazione pubblica lo privi del suo valore? Nessuno può accontentarsi di troppo poco, riguardo a tale questione. Altrimenti, si sarebbe soltanto giunti per davvero più rapidamente allo stesso risultato: dal possesso di una straordinaria fonte di piacere alla sua perdita.
Testo pubblicato nel catalogo della III Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea “Indisciplinata”, Attese, Albisola (Italia), 2006.