Contraddizione e desiderio
Simon Groom
Ai miei occhi, Albisola ha sempre avuto un fascino particolare: qualsiasi luogo avesse dato i natali a un movimento dal nome così donchisciottesco come Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista sarebbe stato degno di nota nel mio mondo e in più il suo fascino era aumentato dal fatto che non riuscivo a localizzarlo con precisione su nessun atlante. Sapevo approssimativamente che si trovava in Italia sulla costa ligure, ma non sapevo se fosse situato davvero sul litorale oppure sulle alture, dove pensavo dovessero trovarsi i sanatori per il riposo e la cura dei disturbi bronchiali, avendo fuso il ricovero di Asger Jorn con la Montagna incantata (e probabilmente un po’ anche con la Morte a Venezia). E non ero nemmeno mai riuscito a evincere da una mappa, o dalle descrizioni che riuscivo a racimolare nei racconti degli artisti, perché Albisola diventasse Albissola, o semplicemente Alba (ma forse questo è un altro posto, completamente diverso). Questa divertente ambiguità che ne circondava il nome aveva conferito a quel luogo, e ai suoi rapporti col resto del mondo, più stabile sul piano ontologico, una condizione mitica, sospesa in modo seducente tra realtà e finzione, verità e immaginazione.
Queste caratteristiche, che per me si identificano con Albisola, mi sembrano connotare anche il rapporto degli artisti con la Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, così come il materiale stesso: l’argilla. La posizione della ceramica nell’ambito della produzione artistica moderna e contemporanea è incerta, ancora odorosa di violetta e patchouli, un’attività da corso serale per coppie annoiate oppure, per citare le parole di Grayson Perry: “Odiavo la ceramica – era qualcosa che facevano gli hippie”. Eppure, allo stato grezzo la sua travolgente fisicità ha un potere metamorfico che gli altri mezzi non possono eguagliare, mentre una volta cotta e seccata la sua brillantezza e ricchezza di colori non sono seconde a nient’altro: nessun materiale è più incontrollabile nella sua imprevedibilità, ma capace della più alta purezza di forma.
Proprio per questa natura ambigua del materiale e per la sua flessibilità infinita, si può avere l’impressione che gli artisti che ho ritenuto più interessante proporre non abbiano assolutamente nulla a che fare con la confusione connessa con la ceramica, né con la sua tranquilla domesticità. Questo sembra particolarmente vero nel caso di Liam Gillick, artista la cui produzione culturale spazia attraverso una grande varietà di discipline tra cui il design, la critica, la letteratura, la musica, l’architettura e il cinema. L’eleganza di pensiero pura e semplice, forma ed esecuzione di tutte le sue opere, nonché la gamma dei materiali impiegati, in gran parte correlati con la produzione industriale anonima come il perspex e l’alluminio, sembrano fare a pugni con la materialità dell’argilla, anche se il raggio d’azione della sua pratica artistica, nella sua varietà, può sembrare proteiforme quanto la plasticità di questo mezzo. L’indagine, interna a gran parte del lavoro di Gillick, relativa alla persistente importanza della forma, dell’ideologia e dell’estetica moderniste, con la loro riconfigurazione e riappropriazione nel contesto di una società che oggi è dominata da strutture e desideri molto diversi, sfocia all’interno di una critica più ampia che cerca di rivelare in quale misura le grandi storie, come quella del modernismo, siano da sempre basate sulla soppressione e l’occlusione delle altre storie concorrenti. Nel lavoro di Gillick sembra ancora presente la grande promessa: tutto è razionale, armonioso, ben progettato, lucido e lustro, eppure siamo lasciati soli con i frammenti di un linguaggio che riconosciamo, incapaci ormai di comprendere se essi aggiungano qualcosa a una storia, un po’ come trovare il paesaggio imbrattato da chiazze di colore mentre vorremmo vedere un arcobaleno luminoso che attraversa il cielo.
Ma la liberazione delle altre storie è una grande compensazione per la nostalgia, sempre immaginaria, di un mondo unificato, essendo così la storia della ceramica. Le opere ceramiche sono state accuratamente cancellate da tutte le storie dell’arte moderna e contemporanea, mentre gli incontri degli artisti col mezzo e il loro lavoro sono stati tradizionalmente liquidati, quando andava bene, come meri trastulli oppure giudicati rivelatori di “elevata fatuità”, per usare le pompose parole di Hilton Kramer. Le opere ceramiche di un artista come Lucio Fontana, che trascorse lunghi periodi ad Albisola, di solito sono trascurate e liquidate genericamente come aberrazioni del gusto, esperimenti kitsch o ludici, con un senso solo come modelli da trasformare in una moneta più accettabile, il bronzo. Per estrema ironia, vista la fisicità così prorompente di molti suoi lavori, Fontana si è guadagnato un posto nel pantheon dell’arte moderna come precursore del Minimalismo, una storia ripetuta alla nausea in tutte le storie dell’arte convenzionali, grazie ai suoi tentativi di aprire l’opera a una nuova concezione dello spazio simboleggiata dalla purezza delle sue tele tagliate. Ovviamente, questa visione non soltanto non tiene conto della maggior parte delle sue opere, ma nemmeno prende in considerazione analisi alternative ben più interessanti. Eppure, basterebbe ripensare ai primi maestri del modernismo, come Le Corbusier e Frank Lloyd Wright, entrambi interessati alla ceramica, per capire in che misura sia efficace tale repressione nel momento in cui una visione estetica protegge se stessa privilegiando l’intelletto al tatto, la forma alla decorazione, l’opera al gioco.
Lo smascheramento del mito del modernismo continua a portare in primo piano ulteriori terreni fertili e storie alternative, come il rinnovato interesse degli artisti contemporanei nei confronti della ceramica, del quale è un segno evidente la nascita della Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, appena alla terza edizione. Ma ciò rappresenta solo un aspetto della questione. Ce n’è un altro e riguarda l’importanza di matrice romantico-modernista attribuita all’individualità dell’artista come eroe-creatore, aspetto particolarmente rilevante nel campo della ceramica, dove di norma gli artigiani esperti che modellano, cuociono o vetrificano le opere in collaborazione con gli artisti sono ignorati. L’importanza attribuita alla natura collaborativa del lavoro ceramico costituisce invece il nucleo della Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea. E prevede che gli artisti invitati sviluppino una proposta cooperando con gli artigiani delle manifatture presenti sul territorio, per creare opere limitate nelle dimensioni a seconda della fornace, ma illimitate per quanto riguarda le ambizioni, la complessità e le sfide connesse.
La proposta di Goshka Macuga vuole portare allo scoperto le storie e riconoscere le reti alternative basate sulle relazioni collaborative. In seguito alle sue ricerche sulla storia degli artisti che hanno lavorato ad Albisola, l’interesse di Macuga si è rivolto alla figura di Pinot Gallizio, artista arrivato ad Albisola nel 1954, appena un anno dopo aver abbandonato l’attività di farmacista che svolgeva in Piemonte, sviluppando e vendendo ciò che ora si chiama medicina alternativa. Ad Albisola incontrò Asger Jorn, col quale, insieme ad alcuni altri, fondò il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista (MIBI). Come suggerisce il nome, il movimento si opponeva ai rinnovati tentativi degli anni del dopoguerra di sviluppare un’arte vincolata alla forma, alla funzione e alla ragione, secondo i dettami della Hochschule für Gestaltung di Max Bill, fondata sui principi del primo Bauhaus, e che trovò la sua espressione definitiva nel Primo Congresso di Design Industriale presso la Triennale di Milano nel 1954. L’etica del MIBI si basava, all’opposto, sull’assoluto rifiuto del funzionalismo e del razionalismo architettonico e sociale, in favore della liberazione anarchica e rivoluzionaria delle energie creative in tutti i campi della vita, sostenuta, a seconda della convenienza, dal richiamo a teorie archeologiche o cosmiche.
Gallizio cominciò a parlare della sua arte in termini di “antimondo” e di “antimateria”, una concezione che trovò la sua realizzazione più spettacolare in un ambiente totale intitolato Caverna dell’Antimateria, creato presso la Rene Drouin Gallery di Parigi, nel 1959. Casualmente, anche Macuga ha realizzato un’installazione chiamata Cave (Caverna) presso la Sali Gia Gallery di Londra nel 1999, nella più completa ignoranza del lavoro precedente di Gallizio. Tuttavia, nonostante questa coincidenza, il suo interesse per Gallizio riguarda più il metodo che la forma. Il MIBI, che nel 1957 si unì con Guy Debord dando vita all’Internazionale Situazionista, è sempre stato nomade, un processo infinito di scambio e trasformazione che respingeva qualsiasi valore culturale, personale o prefissato, una caratteristica che si ritrova in gran misura nel modo di lavorare di Macuga. Invece di ricreare la sua caverna, la proposta di Macuga è stata di rifare alcune opere realizzate da Gallizio in collaborazione con l’artista Piero Simondo ad Albisola, opere che esistono ormai soltanto nelle foto scattate all’epoca. La decisione di Macuga di rifare queste opere cancella l’idea di autorialità ed estende attraverso il tempo il principio di opera collaborativa e di creazione di nuove reti di relazioni, che era centrale per il MIBI. L’opera originale degli artisti, ora perduta, diviene così parte della pratica di Macuga e, a sua volta, la sua opera diviene quella degli artisti da lei esposti.
Sottolineando il metodo rispetto alla forma, la proposta di Macuga può essere vista come diametralmente opposta rispetto a quella di Gillick, basata sulla realizzazione di una forma progettata al computer dall’artista. Intitolato Multiple Revision Structure, il lavoro di Gillick consiste in una serie di semplici forme di ceramica, identiche nel modello e nella forma, e diverse soltanto nel colore. Anche se può sembrare formalmente più vicina a Max Bill che al MIBI, questa proposta in realtà è prossima al rifiuto scettico di Gallizio nei confronti del modernismo, se si considera l’indifferenza di Gillick per le condizioni di esposizione e utilizzo di queste opere. Siccome queste forme possono non soltanto essere accatastate e presentate in qualsiasi modo, ma persino essere combinate con le opere di altri artisti, c’è un’umiltà in gioco che fa decisamente a pugni con i grandi progetti retorici che tradizionalmente sostengono l’autonomia dell’oggetto, come quando l’artista scrive che “È difficile realizzare questa semplice forma, tuttavia il suo posto nel mondo passerà abbastanza inosservato”. Nel riconoscimento del posto che quella forma occupa nel contesto contemporaneo, il progetto si presenta piuttosto come una perversione assolutamente contemporanea della promessa originaria del modernismo, poiché l’opera ora sembra più vicina a ciò che i Situazionisti chiamano dérive, che al desiderio di recuperare la forma modernista. Nel suo unico commento sull’opera, Gillick scrive sentenziosamente, “è un oggetto che in qualche modo opera a livello dello scarto tra modernità e modernismo...”.
L’urto fra culture, tradizioni e sensibilità è forse il motore della maggior parte delle cose che troviamo interessanti, perché non permette che la contraddizione si risolva in qualcosa di coerente, compreso e conosciuto. Il lavoro di Heringa/Van Kalsbeek è quasi un analogo visivo di questa complessità, sia riflessa che prodotta dalla loro pratica di lavoro. Spesso di grandi dimensioni, le loro sculture sono la conseguenza del “risultato casuale” di una combinazione di fili, colori e tessuti che creano strutture dinamiche al cui interno spesso è racchiusa una statuetta readymade di porcellana. Il duo, abituato a operare in coppia, ha deciso di lavorare con altre tre persone su cinque opere contemporaneamente, dedicando ognuno mezz’ora a un pezzo per poi passare al successivo. Il senso di questa giostra sta nell’obbligo di confrontarsi con i gesti inaspettati degli altri, senza la possibilità di lavorare in conformità a un progetto predeterminato, o senza che una persona controlli totalmente il lavoro. Come avviene in certi organismi, il caos delle strutture interne produce mutazioni e proliferazioni, ma la collisione casuale dei numerosi elementi genera una bellezza e una complessità che fanno a pugni con la natura caotica che le ha prodotte.
Infine, sono arrivato ad Amie Dicke per via della sua serie di piccole statuette di porcellana di animali o figure, avvolte in calze nelle quali, come si comprende quando si guarda il pezzo da vicino, ci sono anche ciocche di capelli. Separatamente, ciascuno di questi elementi poteva essere considerato come un oggetto del desiderio – la calza, la ciocca di capelli, le piccole figurine – il genere di oggetto familiare tipico da caminetto. Tutti insieme, però, diventano simboli di morte, che trasformano il ricordo e il desiderio in qualcosa di decisamente più truce e sinistro, poiché provocano uno choc partendo da elementi familiari, quasi come nella frase truce di Donne: “un lucido capello intorno all’osso”. Come nei precedenti lavori di Dicke in cui erano utilizzati ritagli di riviste di modelle, ciò che non è presente spesso sostituisce qualcos’altro e diventa più potente di ciò che resta.
Contraddizione e paradosso sembrano delinearsi perciò come tematiche emergenti. Certamente, in un’epoca di globalizzazione, il ritorno alla terra e a un luogo specifico, con una tradizione di produzione ceramica, favorita dalle condizioni geologiche che hanno dato luogo nei secoli a una cultura tradizionale di lavoro dell’argilla, può sembrare qualcosa di perverso, in contraddizione con la normalità prevalente. Tuttavia, anche se la terra resta la stessa, le idee e le tecniche sono sottoposte continuamente a pressioni e ampliate per rinnovare e rinvigorire la tradizione. C’è di peggio rispetto a prendere come modello Gallizio e, con lui, gli altri artisti giunti ad Albisola: il loro stesso gioco e desiderio di rivoluzione fanno parte della lunga tradizione di coloro che hanno rivoluzionato il mezzo grazie a metodi non ortodossi.