Storie di ceramica tra arte e design
Beppe Finessi
Sì, molte cose partono da qui, inteso come ceramica.
E tutto sembra nascere nel ’17, inteso come anno del ventesimo secolo.
Il 9 aprile, a New York, alla Società degli Artisti Indipendenti, il beffardo giocatore dell’arte moderna, nascosto dietro a uno dei suoi tanti pseudonimi, Riobert Mutt, espone, o meglio cerca di mostrare perché in realtà verrà rifiutata, l’opera Fountain, un vero e proprio orinatoio da parete rovesciato: è proprio in porcellana bianca l’opera che mette in scacco ogni pensiero precedente, e segna il punto di non ritorno dell’arte contemporanea.
Il 14 settembre, a Innsbruck, nasce Ettore Sottsass, l’architetto figlio d’arte che produrrà meglio e più di ogni altro un’opera ceramica imponente, intensa emozionante commovente, e che con la ceramica ha lavorato per dieci lustri con risultati incredibilmente coerenti nonostante le tante stagioni attraversate.
Sì, molte cose partono da qui, inteso come Albisola.
Una storia che parte dalla metà del 1500 con le botteghe Grossi, passa dai Bernardo Corradi e arriva alla produzione dei Chiodo e dei Levantino nei primi dell’Ottocento; poi, con i primi del Novecento, molti laboratori, come quello nato con Giuseppe Mazzotti o quello di Alba Docila fondato da Adolfo Rossello e diretto da Mario Gambetta, si dedicano alla produzione di ceramiche d’artista. Figura chiave è Tullio (Mazzotti) d’Albisola, che con Filippo Tommaso Marinetti e Bruno Munari importa i pensieri futuristi nella produzione ceramica. E qui scriviamo di uno dei passaggi fondamentali della nostra (leggi italiana) prima modernità. Poi Arturo Martini, il maestro, e da allora, dalla fine degli anni venti, Albisola non ha mai smesso di brillare con quest’aura, reale e palpabile, così illuminante per il mondo dell’arte. Poi il secondo dopoguerra, irripetibile, con le serate al bar Testa, con Fontana, Sassu, Dova, Crippa, Fabbri, Lam, ma anche Piero Manzoni (che proprio ad Albisola ha iniziato alcune delle sue opere importanti, e uno dei meriti di questa Biennale è quello di aver recuperato informazioni e materiali “dimenticati” di questo protagonista) e fino ai maestri internazionali come Asger Jorn, che dalla metà degli anni cinquanta fece suo un rudere sulla collina di Albissola Marina, in “Località Brucciati”, trasferendosi con la famiglia, e ristrutturando quella vecchia casa di contadini in un luogo di delizie e sorprese, tra onirico angoscia e levità.
L’oggi, che è cominciato da qualche anno, è un progetto articolato “per raccordare e far convivere molteplici e singolari interessi, messi in comune da una pluralità di soggetti in un campo d’azione che ha coinvolto designer e artisti, curatori museali, critici e storici dell’arte e del design, manifatture di ceramica, imprese high-tech, centri di formazione professionale, università e accademie di belle arti”.
Una Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, giunta alla terza edizione, “mirata allo sviluppo del capitale sociale e culturale del Distretto della Ceramica della Provincia di Savona”.
Manifatture e piccole botteghe alle prese con i sogni, i cimenti, le azioni e le ipotesi di trentasei autori internazionali, invitati a rappresentare le due discipline – arte e design – da sempre interessate all’utilizzo di questa materiale unico.
Ci sono grandi artisti, come Getulio Alviani, che trasforma il tema della piastrella con una delle sue celebri “tensioni”, eguali campiture bianche e nere che sembrano, per effetto ottico, dissimili: il bianco pare vincere sul nero, la luce sull’ombra. Sì, un Alviani Doc.
E ci sono giovanissimi talenti (come alcuni allievi di un Master in Ceramic Design che si è svolto nei mesi di preparazione della Biennale, e ne è diventato parte integrante), come Christina Iacopino, che accenna a una sedia per frammenti di materia, riprendendo la classica struttura tubolare sempre presente in ogni ufficio pubblico, e aggiungendogli piccole parti di ceramica: sublime poesia da prima pagina. O Guido Rossi, con un uomo caduto perché colpito al cuore da un pugno rimasto evidente: crudele verità.
Poi, altra arte alta: Pere Noguera ferma l’automobile, simbolo della velocità e della modernità del secolo scorso, costruendovi dentro un paesaggio di polvere d’argilla. E sempre sulla polvere, ma con ben altra partenza, è il pensiero di Runa Islam: ricostruzione da vecchi stampi di figure tradizionali di animali, giraffe elefanti e altro ancora, esposte vicine a vecchie produzioni ritrovate in magazzino, ancora con la “patina del tempo” ben visibile: pezzi identici, quasi, ma di luminosità diverse, certo.
Jacqueline de Jong ha previsto un’installazione come omaggio a Jorn e alla sua eroica casa: un’istallazione per trasformare la ringhiera, non eccelsa, che circonda la grande vasca d’acqua che divide in due parti la piccola tenuta: 60 patate di ceramica da appoggiare/incastrare/inserire nel tubolare anonimo di quella evidente e sgraziata superfetazione.
Adrian Paci omaggia l’occhio di Pier Paolo Pasolini riprendendo (e applicandoli su tre tipi di terre diverse) alcuni frammenti da Il Vangelo secondo Matteo: parole in immagini strappate alla terra, qualcosa che avremmo potuto/voluto vedere in un Rotella matericamente meno ripetitivo.
Corrado Levi propone un trittico in forma di enigma: tre parti identiche, ma in materiali diversi, la prima in legno di cedro, la seconda in fusione di bronzo, la terza in ceramica smaltata di bianco, chiedendoci “Qual è il rapporto tra ciò che si sente e ciò che si realizza?”: il solito, suo, depistaggio.
Michelangelo Pistoletto trasforma un libro in una ceramica d’oro per rimandarci, letteralmente, ai suoi pensieri moltiplicati all’infinito, e scrivendo così un nuovo capitolo della storia del libro d’artista.
Alcuni progetti rileggono e rinnovano le tipologie degli oggetti quotidiani: Joris Laarman trasforma un grande vaso della tradizione savonese in un aspirapolvere: il contenitore per una volta cambia destinazione d’uso, funzionando comunque. Poco prima di avere ripensato alle parabole (che “come i fiori, puntano tutte verso un satellite che da qualche parte nello spazio riflette le onde radio”) con materiale di cui sopra e motivi decorativi delle diverse culture del mondo.
Ugo La Pietra ironizza sulla proverbiale “parsimonia” dei liguri e propone un salvadanaio ovoidale con decorazioni a rilievo in forma di aculei, forse protettivi: oggetto sorridente e “pericoloso” al contempo, una pelle che diventa una sorta di “istruzione per l’uso” al contrario.
Franco Raggi ha “voluto pensare a quegli oggetti [centrotavola e fermalibri] anche nella loro situazione di riposo, quando non lavorano. In modo che anche senza fiori o senza libri manifestino una dignità formale che possa forse salvarli dal chiuso degli armadi”: così sono diventati piccole architetture domestiche, formalmente compiute ed evidenti, altro che mute presenze da occultare prima o dopo l’uso.
Pekka Harni tornisce 12 differenti elementi di argilla rossa che possono essere sovrapposti liberamente, per ottenere composizioni sempre variabili, e desiderio/obbiettivo dell’autore, quasi interattive.
Non distante il pensiero di Liam Gillick, che manda segnali al suo mondo, quello dell’arte, con una sequenza quasi elementare di vassoi di ceramica lucida colorata, da abbinare insieme o da mescolare con opere di altri artisti: anonimato, diffuso, d’autore.
Adeline Lunati trasforma i due elementi maschio-femmina dello stampo in gesso in oggetti di ceramica: così un porta-gioie è una scatola di forme e spessori “senza firma”, ma profondamente espressiva, una presenza, nuova, che avevamo visto prima solo in magazzino.
Jurgen Bey immagina che la cassa da imballaggio di legno grezzo possa diventare parte integrante di un vaso e non la sua semplice protezione, trasformandola così in una credenza con ante che celano proprio quel contenitore per i fiori.
Paolo Deganello continua il suo lavoro, che dura ormai da quarant’anni, alla ricerca di “oggetti con un’anima”, proponendo una “mutazione genetica di un filo elettrico in una lampada di ceramica che vola”, e dimenticando la tanto sfruttata forma geometrica (che pure nella tradizione anche solo italiana del design ha offerto grandi record, come ad esempio le lampade da “Compasso d’Oro” di Vico Magistretti, Eclisse e Atollo) si lascia affascinare dal mondo degli animali: in questo caso un geco, o meglio la sua “pancia”, che “presta” la forma a una lampada che si arrampica lungo la parete, proprio come un rettile.
Alcuni hanno lavorato sulle caratteristiche proprie del materiale, sulle tecniche di produzione possibili e sulle applicazioni tradizionali, o sull’esatto contrario. Come Carmine Deganello, che ha rovesciato il pensiero sedimentato dell’oggetto in ceramica “come manufatto pesante e fragile, appoggiato su un tavolo come un soprammobile polveroso”, immaginando una lampada a sospensione, costruita in due parti come due valve che si aprono e chiudono per modificare il flusso luminoso. O come lo Studio Demakersvan, che ha disegnato uno sgabello filante (sì, tipologia mai praticata), poi decorato con una tecnica mediata dai tatuaggi (sì, innovazione vera da antenne sintonizzate col proprio tempo).
Alcuni autori hanno lavorato sul rapporto tra oggetto e corpo.
Amie Dicke con calchi di parti di sé, rileggendo una sua opera in marzapane ricoperto di glassa, Com’è dolce lo spazio fra le mie gambe, lavoro che aveva realizzato ancora studentessa alla scuola d’arte: una Rachel Whiteread meno fredda e più “sul personale”, con una memoria colta sul Marcel Duchamp a cui abbiamo dedicato le prime righe.
Franco Raggi riporta in vita un progetto dimenticato degli anni eroici del design radicale, di quando ogni cosa veniva rimessa in discussione. Queste Scarpe per confronto frontale obbligato sono figlie del primo seminario, 1975, Global Tools, “Il corpo e i vincoli”, epico e denso “duello” – in un cortile della vecchia Milano – di tante belle teste amiche e complici.
Florence Doléac disegna l’urna cineraria per una famiglia intera, dandogli la forma di una patata, e dove ogni germoglio da lì “fiorito” contiene le ceneri di una persona.
Alessandro Biamonti ha riletto gli attrezzi per la ginnastica, veri e propri pesi da sollevare prendendoli in mano, dopo averli riempiti “con acqua o sabbia per svolgere bene la loro funzione”, non prima di averli resi anche “belli e proporzionati per essere guardati”.
Altri hanno riflettuto tra ecologia e recupero, ma alla loro maniera: il genio catalano di Martí Guixé, irriverente audace spiazzante, immaginando un volume di ceramica in forma di palla di neve che inserito nella vasca di scarico del wc ne diminuisce la capienza e quindi lo “spreco”.
Paolo Ulian con un vassoio centrotavola decorato con fori passanti che in caso di rottura accidentale permettono all’oggetto di ritrovare una propria fisionomia, mentre i pezzi rotti potrebbero trasformarsi in piccole ciotole: così un “evento negativo” potrebbe diventare “generatore di nuovi stimoli e nuove realtà”. Come dicevano i maestri, sfruttare al meglio la forza degli eventi spesso inevitabili, o la “forza degli avversari”. Sì, quasi una lezione zen.
Poi, in tanti ovviamente, a sfidare la tipologia eterna che non sfiorisce mai, quella del vaso.
Denis Santachiara col tema del vaso-doppio (un tempo magistralmente interpretato da Enzo Mari con il Pago-Pago), riproponendo la forma tradizionale del contenitore più economico e diffuso, quello di coccio, e nobilitandolo matericamente e accelerandolo funzionalmente: un vaso, il suo, che può contenere una pianta o, ribaltato, un fiore solitario e fiero.
Il giovane Morgan Maggiolini riduce il vaso a un cono affilato da piantare direttamente nel sacco di terra in vendita dai vivaisti: beata e sana irriverenza, tanto più se intelligentemente applicata.
Stefano Giovannoni riflette sulle caratteristiche della ceramica rispetto a quelle della plastica, e azzarda profili affilati e dinamici, smaltati in colori sfumati e cangianti, oltre che brillanti, ottenendo contenitori di perfette proporzioni e cromie stupefacenti.
Andrea Branzi continua il suo lavoro per l’integrazione e l’intreccio tra le cose, fiori e vasi compresi, anche spingendo le diversità al dialogo “per creare un tessuto conoscitivo nuovo”.
Alessandro Mendini trasforma, con proverbiale lucidità, le bolle di sapone in una complessa costruzione monomaterica e monocromatica, spingendo e accompagnando le manifatture anche a un record produttivo.
Marta Laudani e Marco Romanelli sottolineano le qualità e la maestria di una fattura artigianale attraverso una decorazione che è una sorta di carta d’identità aperta alla voce segni particolari: un progetto che vale come manifesto per tutte le cose fatte qui, fatte a mano e fatte bene.
Poi, come ricordava Corrado Levi nelle sue storiche lezioni alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, “lo humour è il collante”, e così non mancano ipotesi tra ironia e levità.
Guido Venturini, che silenziosamente, dopo gli anni del grande successo, è tornato umilmente a imparare (esempio da prendere alla lettera) anche studiando un materiale eccezionale come la ceramica. E qui gioca più partite, rimanendo vicino alla linea del sorriso: un Fioraio come un vaso antropomorfo in equilibrio su gambe divaricate, e un vasino per bambini felicemente decorato come una Puzzola o come un canarino (e che diventa, calembour sorridente, un) Cagarino.
David Robbins ha portato ad Albissola il suo lavoro sull’Ice Cream Social, declinandolo in una sequenza verticale di ciotole da incastrare una nell’altra in modo irregolare, decorandole con colature colorate come da dolciumi disciolti.
Poi, un’altra luminosa speranza. Claudio Bracco, sorridente nella sua jeunesse, prepara Il piatto per l’ultimo pisello: lasciandoci un’impronta, puntuale e incisiva, leggera come un’ombra.