Vasi (ancora) comunicanti


Beppe Finessi



“Se qualcosa ci salverà sarà la bellezza”, ci ripeteva, a noi giovani architetti in apnea davanti alle sue parole, Ettore Sottsass. E così abbiamo iniziato a pensare, dopo aver amato per anni solo funzionali seggiole e posate, che anche altri oggetti potessero avere significato e la nostra ammirazione. E dopo aver capito che la bellezza di un fiore è assolutamente necessaria, siamo arrivati presto (grazie ancora per ogni cosa, caro Ettore. Tuo Agitato), o meglio non troppo tardi, a comprendere che un vaso da fiori aveva la stessa, identica, importanza di uno strumento (solo apparentemente) più indispensabile. D’altra parte non si spiegherebbero i tanti cimenti delle migliori teste della progettazione moderna e contemporanea intorno a questa tipologia, che, come poche altre, potrebbe rappresentare una parte credibile dell’intera storia del design (come è stata per la storia dell’architettura la tipologia della stazione di servizio, o per l’architettura degli interni quella del camino, o per le arti visive il tema sempiterno dell’arcobaleno).
Così, per riguardare un pezzo di quella storia, ripensiamo al lavoro fatto ieri, nella III Biennale di Ceramica che fu: Andrea Branzi che aveva mostrato un’evidente maestria nel dare forma a teatrini domestici, tra Fontana e Melotti, immaginando la giusta cornice per storie ricche anche di profumi (Intrecci); Franco Raggi che leggeva il mazzo di fiori come un insieme di singoli elementi, e così li sottolineava dando ad ognuno il giusto spazio, distribuendoli lungo un Ponte da tavolo; Stefano Giovannoni che trovava proporzioni e colori sofisticati, aggiungendo alle sue riconosciute capacità di Re Mida (commerciale) del design un’inaspettata eleganza (Lullaby); il suo ex socio Guido Venturini, spirito libero e capace di darsi il tempo per ossigenarsi i pensieri, mostrava i propri muscoli senza dimenticarsi di farci sorridere (Fioraio); Marco Romanelli e Marta Laudani che alludendo alle tradizioni locali proponevano un’immagine “evidentemente” riferita alla qualità della manifattura (Evidentemente fatto a mano); Jurgen Bey che stabiliva un suo personale primato, disegnando un vaso che incorporava il suo stesso imballaggio, dopo aver ripensato a secolari tradizioni decorative e aver aperto finestre dove prima non c’erano (Vase Cupboard Indian view); e ancora, i giovani Joris Laarman (che usava il vaso come oggetto capace di contenere altre cose, trasformandolo in un aspirapolvere, Crossbreed), Morgan Maggiolini (che conficcava alcuni anelli in un sacco di terra per definirne nuove condizioni d’uso, Radical) e Giovanni Occhipinti (che contrastava la fragilità di un fiore con un contenitore che alludeva al mandrino di un trapano Vaso per un'unica rosa), uniti (benedetta jeunesse!) da una evidente, dichiarata, plateale dose di provocazione. Non ultimi, gli artisti Soo-Kyung Lee e Shimabuku che in modi diversi riflettevano sulle tradizioni dei propri paesi d’origine per trasformare i vasi in qualcosa d’altro, oggetti per ospitare (in forma di disegno/scrittura) antiche storie (Translated Vases), oppure oggetti per compiere altre azioni, come addirittura pescare (La pesca dei polpi).
Così arriviamo all’oggi, a questa IV Biennale programmaticamente strutturata per riflettere su questa tipologia così tante volte indagata tra arte e design, a dimostrare che c’è sempre un altro modo di fare la stessa cosa. Ecco Lorenzo Damiani e la sua solita, ormai proverbiale, capacità di rovesciare anche le più quotidiane certezze: la bellezza di un fiore può essere ripensata, e diventare virtuale (Digital Flowers). Ecco Marco Ferreri che da tempo ha raggiunto una notevole, evidente maturità, mostrata con segni calibrati, efficaci, e sempre intelligenti: per lui, oggi, una rilettura dei modelli già indagati da Roberto Sambonet e Joe Colombo, a cui ha aggiunto una riflessione cromatica in progressioni matematiche che potrebbero piacere a Getulio Alviani (3x1). Ecco Donata Paruccini, sempre più brava quanto più riesce, e da qualche tempo riesce sempre, ad essere apparentemente normale, che per lei vuol dire muoversi silenziosamente per accarezzare la perfezione, e immaginare un dialogo lieve tra acqua, fiore e vaso, attraverso un progetto/pensiero quasi zen (Pluvio). Ecco Paolo Ulian, il nuovo maestro del design italiano, fuoriclasse puro, tutto quello che fa è in zona perfezione, qui non contento si sdoppia, e lavora a due progetti molti diversi tra loro, uno evidentemente scultoreo, virtuoso cimento tra forma e funzione (Rosae), l’altro materico/produttivo, incidendo con attrezzi differenti vasi identici costituiti da strati di terre colorate, ottenendo così una teoria di oggetti sempre differenti, e scrivendo una storia nuova lungo il filone mai abbastanza praticato della “serie diversificata” (Emersi).
Sì, certo, non dimentichiamo un altro sommo, Alessandro Mendini, che come sempre spiazza e qui supera se stesso sfuggendo al (suo) catalogo, offrendoci un sogno di bolle di sapone fermate per sempre nella ceramica, materiale millenario (Tre sfere), dopo avervi aggiunto finiture realmente preziose. Ancora, dopo aver sorriso al gesto copernicano di Denis Santachiara (Qualc’uno), ecco il nostro maestro, Corrado Levi, che come sempre ha giocato una partita tra le tante a lui possibili (qualcuno li ha contati, sono diciotto i suoi modi di progettare), questa volta giocando a flipper tra paradosso, humour e allusione, e disseminando di indizi questi suoi gesti, felici, tra arte e design: è suo, qui e domani, il primato di un vaso che non c’è (Flower).