Ceramica e arte contemporanea
Elio Grazioli
Ricevuto l’incarico di preparare un breve seminario sulle questioni generali della ceramica in rapporto all’arte contemporanea, con una sintesi storica che ne ripercorresse le tappe principali, mi sono buttato in una ricerca bibliografica non priva di difficoltà, per arrivare prima di tutto a verificare quanto, a livello bibliografico, i due mondi siano ancora molto separati. La ragione è la solita, per così dire. Dipende dal fatto che l’arte contemporanea ha abbandonato le tecniche artigianali o se ne è avvalsa senza praticarle direttamente con maestria.
Questioni generali: si pensi da un lato alla situazione analoga di altri linguaggi, per esempio la fotografia, e alla quantità di analogie che se ne possono ricavare; dall’altro, si pensi all’idea di arti minori e di arti applicate, a cui le tecniche artigianali erano legate; e infine si pensi all’evoluzione che entrambe le problematiche hanno avuto nella contemporaneità, soprattutto la più recente.
Resta il fatto che la stragrande maggioranza dei libri sulla ceramica in generale e sulla storia della ceramica termina fermandosi imbarazzata alle soglie della questione contemporanea, accennando solo a inevitabili esempi illustri, a influenze stilistiche molto generali, per passare a una storia interna che finisce col divergere, senza più confronti, da quella dell’arte, che ha imboccato altre vie.
La questione non è scontata, ma anzi è ricca di risvolti e di spunti importanti. Così, da capo: perché riprendere in mano la ceramica, produrre opere nuove, dedicarle una Biennale? Che uso fare della ceramica? Da questa tecnica vengono ancora spunti concettuali utili oggi? E, per non sfuggire ai risvolti sociali e politici, quanto si rischia in termini di nostalgia o di ideologia, per non parlare di demagogia, in un suo ritorno?
Mi sono chiesto: il ritorno alla ceramica indica un bisogno di materia, di realtà-solidità-concretezza e manualità-interazione? Di natura e primordialità?
La ceramica è, infatti, ancestralmente, l’arte dei quattro elementi originari: acqua della vita, terra della materia e del caos, aria del respiro e fuoco della trasmutazione. Attraverso il loro intreccio e uso i gesti umani restano fissati e leggibili dentro la materia stessa, che viene trasformata, fissata dal fuoco e resa inalterabile per sempre. I gesti che l’hanno originata sono essenziali, basilari, non mediati, primariamente simbolici.
Perfino la meccanica che comporta è la più semplice e diretta e, insieme, è la base della geometria, della forma, dell’astrazione, forse del pensiero visivo: la rotazione e l’aspetto circolare formano il principio del contenere, del centro, della concentrazione, della meditazione nel fare, della mente fissa sul movimento della materia modellata dalle mani, del rapporto tra mano e occhio, tra superficie e bordo, vuoto e pieno, dentro e fuori. Ma, d’altro canto, forse è proprio con la rottura di tale primordialità che nasce il contemporaneo, anche in ceramica. Almeno in due sensi. Il primo è quello di un altro tipo di traccia, quello, per così dire, senza gesto, del calco, della derivazione diretta (copia per negativo), meccanica (che pure cambia di senso), senza mano-espressione. Calco che nella modernità diventa anti-scultura (Georges Didi-Huberman1), readymade (Marcel Duchamp), riproduzione (Walter Benjamin), indice (nel senso espresso da Rosalind Krauss2). Il secondo è quello di un simbolismo diverso, alla seconda potenza, ricercato perché perso, all’indietro nel tempo e nello spazio, fuori e altrove, mescolato al presente, all’attuale, avanguardizzato. Insomma, quello di Paul Gauguin che è, infatti, il primo grande artista contemporaneo a dedicarsi assiduamente alla ceramica, sovvertendola allo stesso modo della pittura e della scultura. La ceramica per Gauguin è una delle vie per cambiare l’oggetto, attraverso vasi che non sono vasi, brocche che non sono brocche, e per modificare la scultura, per esempio inserendovi i “buchi”, naturalmente con un risvolto sessuale. L’autoritratto è la testa tagliata (e sanguinante), il nudo è il sesso, il vaso è il pesce (sia nel senso simbolista, per cui l’oggetto è ciò che simbolizza, sia nel senso che il contenitore è il contenuto e viceversa). Gauguin è contemporaneo, cioè è l’altra faccia, e insieme la risposta, alle cineserie, all’esotismo, al turismo.
Con il Ventesimo secolo esplodono le avanguardie che travolgono anche la ceramica, ma non senza includerla nei loro programmi, non senza saggiarla, piegandola alle proprie esigenze e concezioni, forse proprio così cambiandola veramente, nell’uso stravolto, dirottato, deviato. In termini modernisti, se si vuole: non rifiutandone la “specificità”, ma cercandone un’altra, altre, proprio mentre se ne trasgrediscono le presunte regole stabilite. Così il Futurismo, il secondo soprattutto, di cui Albisola è stata il centro, come già documentato dalle scorse edizioni e dai relativi cataloghi della Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea. Si pensi a come torna la rotazione nel Profilo continuo – Testa di Mussolini di Renato Giuseppe Bertelli, con gioco sottile, nella duplicità del profilo, del bordo tra dentro e fuori.
Ha scritto giustamente Luca Beatrice nel catalogo della I° edizione della Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea: “In un’apparente contraddizione sta forse la chiave per comprendere pienamente l’importanza e la differenza del Secondo Futurismo [...]: la contraddizione appunto tra il recupero dell’artigianato, della manualità, addirittura della tradizione e di ciò che risiede nella storia minore dell’arte italiana, di contro al mito modernissimo della macchina e alla filosofia della ricostruzione futurista dell’universo3”. Una posizione da paragonare a quella di Fernand Léger, che peraltro della ceramica ha fatto invece un uso piatto, volutamente tendente alla bidimensionalità, e a quella dei costruttivisti russi: ceramica applicata, sì, ma alla rivoluzione, alla costruzione del mondo nuovo.
Mattatore anche in ceramica fu Pablo Picasso che impiegò e piegò questo materiale in tutti i modi e le forme. Per l’artista spagnolo la ceramica è un supporto come qualsiasi altro per il dilagare della pittura, qualsiasi aspetto abbia, potendo assumerne qualsiasi, in preda all’immagine e alla metafora pittorica. Questa possessione di cui Picasso è in balia quanto i suoi prodotti lo fa essere anche umoristico (soprattutto nei ritratti d’invenzione) ed è questo forse il carattere saliente del suo rapporto con la ceramica. Un rapporto che vale la pena di definire dionisiaco, rimandando alla centralità di figure come fauni, ninfe, sileni, suonatori di flauto e simili, nonché a temi come la corrida, che segnano una parte cospicua della sua produzione.
Mutatis mutandis, lo stesso vale anche per Joan Mirò, altrettanto dedito alla ceramica e alla sperimentazione, libero tra pittura e scultura, come in una forma, o un medium, intermedio, di mezzo, capace di riconciliarle, di fonderle, letteralmente, come nessun altro.
Problematiche nuove emergono nel secondo dopoguerra, in particolare tra Informale e Situazionismo. Da un lato la poetica dell’informe non poteva che trovare nella ceramica una materia e una tecnica intrinsecamente adatte: “medium eccezionale per la sua primarietà, si presta in maniera ottimale a quel nuovo rapporto che l’artista, favorendoli o provocandoli, caricandoli di inediti significati esistenziali, instaura con gli aspetti del caso, con quelle imprevedibili modificazioni che intervengono nel corso della creazione artistica”, scrive per esempio Luciana Martini4.
Prendiamo Lucio Fontana e Antoni Tápies, i due esponenti principali di questo ambito, almeno nel filo del nostro racconto. Fontana ha amato moltissimo la ceramica, da lui ritenuta “fusione” degli elementi del linguaggio pittorico e scultoreo, a livello della concettualità di cui caricava lo spazio che ricercava. Definì anche il fuoco un “intermediario che perpetua la forma e il colore5”. Per lui la ceramica era la natura elevata a concetto, invece che a metafora, dell’universo. Tápies, da parte sua, ha dato una delle immagini più efficaci del suo intero operare proprio a proposito di una sua ceramica, Triangolo: “L’opera è il frutto di una lenta gestazione da parte dell’artista. Egli prende per così dire l’abitudine di pensare e di reagire per mezzo di immagini che poi, in modo quasi inconscio, decantano, si imprimono o si cancellano. Ma quando crediamo di poter, di punto in bianco, lavorare su un’idea determinata, ci accorgiamo che anche l’opera comanda, perché ha le sue proprie leggi – interne ed esterne – di sviluppo. Si ribella e ci impone le sue condizioni alla maniera dei personaggi di Pirandello. Come ovunque dove c’è vita, un dialogo ha luogo tra l’autore e la materia della sua opera. All’inizio il fine non è sempre chiaro: ‘È sotto il passo che si forma il cammino’6”.
Nel gruppo Cobra prima e nel Situazionismo poi, la ceramica ha un punto di svolta radicale, negativo nel suo uso contro le pretese alte dell’arte, ma positivo nella sua assoluta messa a disposizione della libertà, anzi come luogo di questa ricerca. Sia per Asger Jorn che per Pinot Gallizio la materia è, per dirlo con un’espressione di Guy Debord, un “disordine perfetto”, l’oggetto che da lei nascerà dovrà essere “strano e caotico”, espressione di un “desiderio umano7”. La fabbricazione della ceramica è una decorazione libera, un’opera che mette in gioco forze e azioni collettive. Libertà coniugata a immaginazione e a sperimentazione sono le parole chiave, il gioco, il modello più aderente alla concezione estetica: elementarità dell’espressione, niente serialità, niente funzione né uso.
Piero Manzoni, da parte sua, fa un’unica ceramica e ci mette sopra una semplice linea: né piacevole, né complessa, né rivendicativa, una linea. Un concetto? La “cosa” stessa?
Fin qui ho dunque ripercorso sinteticamente la storia dei rapporti tra ceramica e arte contemporanea attraverso gli esempi che mi sono parsi più significativi, nonché quelli intriganti a livello problematico. Senza ridire tutto, punto ora su accostamenti imprevisti. Uno di essi è quello tra Nanni Valentini e Draghos Gheorghiu. Valentini è un caso del tutto particolare di artista che ha guardato alla ceramica come a un medium, si direbbe oggi, cioè come a una tecnica che diventa linguaggio, perché è esattamente quella che permette di recuperare significati arcaici, “filosofia” della ceramica e della forma attraverso la ceramica, in un certo senso, anzi, prima forma stessa (pre-socratica) del filosofare (si rileggano Gaston Bachelard e Mircea Eliade, ma anche Paul Valéry8).
Quanto a Gheorghiu, altro caso singolare, è uno studioso tanto convinto dell’unicità dell’esperienza arcaica da volerla rifare tale e quale9. Ricostruisce così le tecniche di cottura neolitiche, con modalità, materie e strumenti dell’epoca, compresi luoghi e modi di vivere, nel limite del possibile. È l’archeologia-antropologia come forma d’arte? In ogni modo, non è un caso che sia proprio la ceramica a indurre esperienze e riflessioni simili.
D’altro canto – e in un certo senso all’opposto, ma senza che sfugga come storicamente le due non vadano l’una senza l’altra – anche la Fontana di Marcel Duchamp, l’orinatoio readymade, è una ceramica, una (la) ceramica readymade. Per questo figura a pieno titolo in quella che è diventata la mostra di riferimento sull’argomento (e si controlli la sua imbarazzata perché necessariamente brevissima bibliografia), A Secret History of Clay, from Gauguin to Gormley, tenutasi alla Tate Liverpool nel 2004. Anche la ceramica, cioè, può essere presa e assunta come oggetto, o tecnica-oggetto, tale e quale, e usata come opera in sé, come qualsiasi altro oggetto di readymade. Così hanno fatto poi, in un contesto postmoderno, Jeff Koons e Sylvie Fleury; così ha fatto prima e in un contesto del tutto differente, un eccentrico come Robert Filliou con i suoi Briquolages: “Mi piacciono i mattoni (briques) e il contrasto tra il peso del mattone e la leggerezza dello spirito è qualcosa che mi interessa molto. Dunque il progetto è partito da qui”. Il readymade per Filliou non è un gesto freddo, distaccato, concettuale: “Si inserisce nella prospettiva di questo ideale di ‘Creazione Permanente’ che mi sono e ho proposto agli altri, e che si articola intorno a un segreto relativo della Creazione Permanente: ‘qualsiasi cosa facciate (pensiate) fate (pensate) ad altro’; e a un segreto assoluto: ‘tranquillamente seduti, non fare niente’, e i cui strumenti principali consistono in ‘innocenza e immaginazione’ e ‘viaggiare leggeri’”. Dunque: “Qualsiasi discorso è bricolage. Prendendo l’espressione alla lettera, ho provato un vero piacere nel (cercare di) rendere le ali a un materiale così grandiosamente terra-terra come il mattone10”.
Anche la Pop Art, l’Arte Povera e la scultura inglese hanno avuto rappresentanti che hanno messo le mani in pasta nella ceramica (tanto per ricordare qualche nome: Roy Lichtenstein, Giuseppe Penone e Marisa Merz, Tony Cragg e Antony Gormley), ma non conta qui ripercorrere quelle analisi, che pure sono interessanti per le implicazioni che comportano. Meglio piuttosto stringere su alcune questioni finali.
Da un lato, oltre che nei movimenti artistici propriamente detti, ho riscontrato l’uso della ceramica anche all’interno delle nozioni critiche più ricorrenti negli ultimi decenni. Così è per l’interpretazione della ceramica nel senso dell’”informe”, riletto da Rosalind Krauss e da Yve-Alain Bois11 a partire da Georges Bataille, che loro hanno esemplificato nel “cubo” Ceramica spaziale di Fontana e io nelle più recenti ceramiche di un Didier Vermeiren o di Nobuo Sekine. Oppure si pensi al già accennato spostamento analitico introdotto dalla reinterpretazione di categorie e nozioni come “traccia” (Jacques Derrida), “calco” e “impronta” (Georges Didi-Huberman), “indice” (Rosalind Krauss) e a esperienze riconducibili a queste. Si prendano per esempio i calchi dell’incavo delle mani che si stringono su un pezzo di argilla in due artisti come Gabriel Orozco e Nedko Solakov, opposte per certi versi, a causa dell’idea di paura e di viaggio aggiunte dal secondo alla primarietà del gesto del primo.
Dalle precedenti edizioni della Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea ho inoltre estratto le esemplificazioni e le modulazioni di altre categorie ricorrenti. Così il ritorno forte di tematiche situazioniste come il détournement, deviazione di qualcosa dalla sua funzione e scopo verso altri diversi, quando non opposti e contraddittori, decostruttivi e post. Mi sembra di poterne ritrovare in vari autori: da Björn Kjelltoft a Gabriel Lester, Hale Tenger, Loris Cecchini, Luca Vitone e un poco anche in Luca Pancrazzi, ognuno a modo suo, e ognuno occasione di discussione e di verifica nel mio sintetico seminario.
Si pensi anche alla recente idea relazionale dell’arte. Tra i tanti esempi possibili, forse il più suggestivo è stato quello di Soo-Kyung Lee che, nell’ambito della scorsa Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, ha istituito un dialogo a distanza non solo tra le tradizioni di Albisola e quelle della Corea, ma anche tra soggetti personali messi in relazione dalla sua iniziativa, nonché tra racconto-testo-concetto, grazie al dispositivo della traduzione (tradizione/traduzione dunque, e trasporto, viaggio, nonché trapasso, sogno, poesia...): “nel corso dei diversi stadi della traduzione il senso delle porcellane bianche della dinastia Choson si è smaterializzato dai vasi al testo e poi è stato tradotto e trasformato, per materializzarsi nuovamente e ripresentarsi come vaso12”.
Due casi molto particolari sono quelli di Bruno Peinado e Rainer Ganahl, per la tematica mediale, linguistica e comunicazionale che affrontano, con una questione di traduzione molto diversa da quella di Soo-Kyung Lee.
Infine non si può tralasciare l’implicazione più vasta di queste ultime nozioni e pratiche, riguardante il rapporto tra ceramica-arte e globalizzazione-glocalizzazione. Su di essa si sono concentrati a sufficienza i curatori delle scorse edizioni della Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea – dall’approccio diretto di Roberto Costantino a quello solo apparentemente più indiretto di Hans-Ulrich Obrist – perché io debba insistere oltre, se non per ribadirne l’importanza, la ripercussione e le conseguenze che comporta su tutte le altre problematiche, formali, ideologiche, estetiche e umane.
Da parte mia conto di concludere con il richiamo ad almeno tre casi particolari. Sono tre artisti che hanno fatto un uso singolare e interessante della “ceramica”, dico della ceramica tra virgolette, perché non trattano esattamente questo materiale, ma proprio per questo avrei voluto vederli a confronto diretto con la ceramica.
Uno è Rolf Julius che utilizza la terra cotta come strumento musicale in una modalità personale. Niente fabbricazione di sofisticati, fragili e preziosi strumenti veri e propri, ma uso di semplici vasi appesi tra gli alberi a integrare la propria forma e il proprio suono con quello loro: quella di Julius è infatti una small music, fatta di microscopiche particelle e vibrazioni, microvariazioni per attenzioni e sensibilità acute, paesaggi più che concerti o installazioni: “passeggiate all’interno – passeggiate all’esterno [dei suoni] – e per favore non cercate di comprendere la musica di questi pezzi, anche se non sono ‘abbastanza alti’. Potete immaginare a che altezza canta il loto?13”.
Gli altri due sono Dieter Appelt e Pere Noguera – quest’ultimo invitato alla Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea – che unisco, come già mi è capitato di fare nel mio libro La polvere nell’arte14, perché con la terra coprono completamente, l’uno degli oggetti, anzi grandi spazi su cui sono disseminati oggetti vari, e l’altro se stesso, in un’immedesimazione panica con la terra e la natura e un uso del corpo e della fotografia (la tecnica con cui si riprende) che non ha paragoni. Seconde pelli di ciò che ricoprono, hanno nel coprire il senso del loro mistero, la differenza eppure la riconoscibilità dell’oggetto, la sua transustanziazione naturale, il ritorno letterale alla terra. Non è ceramica, certo, ma è certamente la dialettica terra cruda/terra cotta ad averglielo suggerito. Che cosa c’è di più “primario”?
Note
1. Georges Didi-Huberman, L’empreinte, mostra al Centre Georges Pompidou, Parigi 1997.
2. Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996.
3. Luca Beatrice, Albisssola città futurista, in Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, vol. I, Attese, Albisola 2001, p. 86.
4. Luciana Martini, La ceramica informale, in L’Informale in Italia, Mazzotta, Milano 1983, p. 107.
5. Lucio Fontana, La mia ceramica, in Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, vol. I, Attese, Albisola 2001, p. 75.
6. Antoni Tápies, in Tápies a Milano, Mazzotta, Milano 1985, p. 19.
7. Guy Debord e Asger Jorn, citati in Giorgina Bertolino e Francesca Comisso, Asger Jorn e Pinot Gallizio: le due Albe del Bauhaus Imaginiste, in Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, vol. I, Attese, Albisola 2001, p. 211.
8. Vedi: Gaston Bachelard, La terra e le forze, trad. it. Red, Como 1989 e La terra e il riposo, trad.it. Red, Como 1990; Mircea Eliade, Forgerons et alchimistes, Flammarion, Parigi 1956; Paul Valéry, De l’éminente dignité des arts du feu, in Pièces sur l’art, N.R.F., Parigi 1936.
9. Vedi: Dragos Gheorghiu, Il passato come opera d’arte, in “Ipso Facto”, n. 9, gennaio-aprile 2001, pp. 50-61.
10. Robert Filliou, Briquolage (1982), in Robert Filliou, catalogo della mostra al Centre Georges Pompidou, Parigi 1991, p. 125.
11. Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss, L’informe: istruzioni per l’uso, trad. it. Bruno Mondadori, Milano 2003.
12. Soo-ung Lee in Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, vol. II, Attese, Albisola 2003, p. 177.
13. Rolf Julius, Small Music [Grau], Kehrer Verlag, Heidelberg 1996, p. 147.
14. Elio Grazioli, La polvere nell’arte, Bruno Mondadori, Milano 2004.
Testo pubblicato nel catalogo della III Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea “Indisciplinata”, Attese, Albisola (Italia), 2006.