L’Africa alla Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea
Olu Oguibe
Per gli artisti africani la seconda edizione della Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea costituisce un’opportunità per lavorare con i ceramisti liguri e per produrre pezzi speciali in ceramica che danno forma a una grande varietà di temi. Questa occasione prosegue una tradizione cominciata quasi un secolo fa, quando il maestro afro-cubano Wifredo Lam si era unito a un gruppo di amici, tra i quali Asger Jorn, e aveva traslocato nella Riviera Ligure per lavorare la ceramica insieme con gli artigiani locali. Dopo aver trascorso molti anni a Parigi, durante i quali aveva lavorato con Picasso e altri artisti moderni, Lam aveva fatto la conoscenza dei membri della Bauhaus Immaginista, che all’epoca avevano iniziato a interessarsi in misura crescente a forme e materiali primordiali come la terra, l’argilla e altri composti di matrice organica, considerati elementi indispensabili per un’arte veramente appassionata e diretta. Gli anni dell’amicizia con Picasso avevano risvegliato in Lam anche l’interesse per la ceramica, che aveva rivestito un ruolo sempre più centrale nelle ultime esplorazioni dell’artista spagnolo. Come uomo di colore Lam, che era un inveterato viaggiatore e aveva vissuto in Europa e nelle due Americhe, costituiva di per sé una rarità nella Liguria degli anni ‘50 e ‘60, una regione che non era esattamente Parigi o New York, e nemmeno Città del Messico, dove l’artista aveva soggiornato in diversi periodi della sua carriera. Tuttavia, essendo una persona di origini e inclinazioni variegate, per quanto ben amalgamate dalla sua personalità calma ma potente, e avendo anche un infallibile talento artistico, Lam si era trovato come a casa in Liguria. Dopo brevi periodi di lavoro in gruppo, negli anni ‘70 aveva deciso di trasferirsi lì con tutta la famiglia e di stabilirsi a lavorare nel generoso e accogliente studio delle Ceramiche San Giorgio di Albisola. La Liguria è stata per Lam l’ultima residenza dove ha soggiornato per lungo tempo fuori da Cuba.
Quando nel 2000 i curatori liguri Tiziana Casapietra e Roberto Costantino hanno deciso di ristabilire la tradizione avviata da Lam e dai suoi amici, basata sulla collaborazione tra gli artisti contemporanei e i ceramisti locali, e si sono rivolti a me come collaboratore e consulente, ho posto come condizione della mia partecipazione la possibilità di estendere l’invito a un’altra generazione di artisti africani, in grado di ereditare il ruolo e la presenza spirituale assunti da Wifredo Lam in Liguria. In particolare, ho proposto El Anatsui, che proviene dal Ghana ed è sotto ogni punto di vista un maestro contemporaneo. In più, oltre ad aver lavorato in diversi luoghi del mondo, ha anche avviato da lungo tempo un rapporto personale con la ceramica. Come Lam, Anatsui ha sviluppato e consolidato la sua carriera artistica lavorando all’estero, nella Nigeria orientale, insieme con un gruppo di artisti afro-moderni la cui preoccupazione era quella di definire il linguaggio e gli obiettivi dell’arte nell’epoca postcoloniale.
In Nigeria, Anatsui ha scoperto e raffinato le forme e le idee che avrebbero legato il suo lavoro alle particolari sensibilità, storie, miti e regole estetiche tipiche della zona della foresta pluviale dell’Africa occidentale, tematizzando e incorporando nella propria ricerca le tecnologie e le idee del millennio. Per lo più, Anatsui ha operato con il legno, il fuoco e con il suo strumento preferito, la motosega meccanica, una triade che per lui rappresenta il cosmo moderno: la natura organica, gli elementi invincibili e l’intervento dell’uomo sulla natura attraverso la tecnologia. Con questi tre elementi Anatsui ha ridefinito e reinterpretato le traiettorie mitologiche, immettendo la storia recente nelle metafore eterne e analizzando il rapporto sempre più insidioso e incerto tra l’Uomo e l’universo. Sfregiando il legno con la motosega per poi segnarlo col fuoco, Anatsui ripete simbolicamente il rituale fondamentale di tutte le società sedentarie della foresta pluviale, quello dell’intaglio del legno, dimora della vita, della morte e di tutti gli spiriti esterni, e del suo successivo incendio su un letto di humus fertile, per propiziare la rigenerazione grazie a un atto di distruzione apparente, secondo il ciclo della vita e della morte su cui si basa il mondo.
Negli anni ’70, Anatsui è ritornato all’argilla, spinto in ciò dal suo interesse per le materie primordiali, dal fascino che ha per lui il vasellame e dalla sua familiarità storica con quel materiale che risale a parecchi secoli fa, al periodo della migrazione dei suoi antenati dalla Nigeria al Ghana. Tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, Anatsui ha realizzato centinaia di potenti pezzi in ceramica imperniati sui rituali, sui miti e sulla storia e basati sul suo amore per la forma del vaso. Nel 1984, ha creato 120 pezzi unici di vasellame in un luogo della Cornovaglia non lontano da St. Ives, dove vari decenni prima Barbara Hepworth e la Scuola di St. Ives si erano ritirati per sfuggire alla città e lavorare con gli artigiani locali. Mi era sembrato perciò molto appropriato che Anatsui prendesse parte alla manifestazione ligure che rinnovava l’interesse per la ceramica nell’arte contemporanea. Per la sua partecipazione, l’artista aveva creato un’opera che mediava in modo caratteristico la natura e la tecnologia: Digital River. In quest’opera, composta da trentatré tegole disposte sul pavimento, Anatsui aveva fatto ricorso alla metafora del fiume, o della corrente, per tematizzare la rivoluzione della diffusione sonora grazie alla quale ora è possibile processare il suono secondo unità digitali, i bit, per propagarlo elettronicamente da una fonte a un terminale. Ovviamente, attratto dalla persistenza dell’immaginario legato alla natura anche nell’epoca digitale, Anatsui ha esaltato il suo gioco poetico con la metafora della corrente, con le sue associazioni di serenità e lirismo, e ha utilizzato una combinazione di terracotta e vetro, materiali di cui ha messo in luce le qualità grazie a una tavolozza di verde e blu.
I direttori e fondatori della Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea avevano già invitato un altro artista africano, Bili Bidjocka, che vive e lavora a Bruxelles. Artista poliedrico che ha lavorato con ogni mezzo immaginabile, dalle installazioni con i nuovi media alle forme ecologiche, Bidjocka è tra i molti artisti che hanno sperimentato la ceramica per la prima volta proprio collaborando con gli artigiani della Liguria. Negli ultimi anni, Bili Bidjocka ha lavorato sul motivo del mimetismo, inteso come metafora contemporanea della malinconia, da un lato, e come metafora classica delle sofisticate astuzie di sopravvivenza, dall’altro. Alla fine, Bidjocka ha ulteriormente complicato questa metafora nella serie Skin, nella quale ha affrontato, in modo estremamente sofisticato e sottile, la patologia al tempo stesso complicata e ambivalente del feticismo nei confronti della pelle. Nel corso del suo lavoro presso lo Studio Ernan Design di Albisola, Bidjocka ha deciso di reinterpretare le sue forme abituali, caratterizzate da pelli animali a strisce e abiti lunghi, realizzando una sorta di ceramica murale, in cui gli spazi in negativo e quelli in positivo si intrecciavano per dar forma a un insieme omogeneo. Durante il suo soggiorno in Liguria, Bidjocka ha creato anche altre opere e ha dato vita a un sodalizio con lo Studio Ernan, da cui è nato un workshop al quale l’artista ha partecipato in prima persona, sviluppando così un’ulteriore modalità di collaborazione.
Per la seconda Biennale, i direttori mi hanno dato l’opportunità di invitare nuovamente in Liguria sia El Anatsui, sia Bili Bidjocka, per permettere a questi artisti di continuare a lavorare con i loro studi preferiti e di sviluppare ulteriormente le idee che avevano cominciato a esplorare partecipando alla prima edizione. In questo catalogo, ogni artista ha descritto i pezzi e i progetti da lui prodotti per la seconda Biennale. Bidjocka continua la sua ricerca sulla pelle variando, però, il tipo di manto animale scelto come modello. Il momento più importante della partecipazione di Bidjocka alla seconda Biennale, comunque, è il suo lavoro con gli alunni della Scuola Elementare di Albisola Superiore dove, per parecchi giorni, l’artista e i bambini hanno prodotto gli elementi necessari per costruire una tenda in ceramica. Questo aspetto del progetto di Bidjocka, proposto e avviato dall’artista stesso, ha consolidato ulteriormente la natura comunitaria delle collaborazioni di Albisola, oltre ad aver valorizzato la ceramica agli occhi dei giovanissimi, che potrebbero altrimenti dare per scontato le tradizioni locali.
Tra le due Biennali, Anatsui è ritornato ad Albisola per lavorare ancora con i maestri dello studio su suoi progetti privati. Per la seconda Biennale, ha deciso di tematizzare un’altra ossessione dell’epoca digitale, vale a dire la sicurezza, questa volta utilizzando la metafora del lucchetto. Per molte persone dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo, la sicurezza personale costituiva una preoccupazione crescente anche prima del riaffermarsi della coscienza della sicurezza nazionale, seguita al crollo delle torri del World Trade Center a New York, nel 2001, al punto che questa preoccupazione era già stata trasformata in un business da parecchi milioni di dollari. Sempre sensibile nei confronti del paradosso, l’interesse di Anatsui è stato così immancabilmente stimolato da questa diffusa ossessione verso la sicurezza nazionale e personale, in un’epoca in cui ci si vanta di una maggiore libertà, specialmente fra le popolazioni che vivono in quello che generalmente è definito come “il mondo libero”. Questa ironia è il soggetto del suo nuovo pezzo per la Biennale. Nel movimento attraverso cui sono stati creati le nostre libertà e i nostri diritti, e nel processo del loro consolidamento, si è assistito alla contemporanea diffusione di un’estrema insensibilità, dell’individualismo e di uno sconsiderato opportunismo, che ci hanno di conseguenza privato di quei fondamenti e di quelle strutture basate sulla responsabilità reciproca che nel passato avevano avuto una funzione di ammortizzatori. Oggi, potenti e liberi ma separati uno dall’altro, scopriamo che tutto il contenuto delle nostre libertà è un acuto senso di vulnerabilità e insicurezza. La libertà si è tradotta in paranoia. Siamo sempre più forzati a chiuderci in noi stessi e a confinarci — noi, persone libere! — in piccoli cubicoli dietro serrature, chiavistelli, parole d’ordine e codici d’accesso, proprio mentre marciamo per liberare le nazioni e diffondere altrove la libertà. Se soltanto potessimo dar retta all’antico monito: libera te stesso!
Per la seconda Biennale, si sono aggiunti a questi artisti il sudafricano Andries Botha e Nicole Awai, proveniente da Trinidad, ma residente a New York. Ad Albisola, Awai ha lavorato nello studio del ceramista Danilo Trogu. Nel corso degli ultimi cinque anni, quest’artista ha creato opere concettuali utilizzando mezzi diversi che analizzano i numerosi, complessi e sensibili punti di contatto e di contaminazione reciproca tra l’occidente e il resto del mondo. Nel suo lavoro per la Biennale, Awai propone un tema in progress, che ha esaminato e sviluppato per parecchi anni. La metafora da lei scelta è quella delle secrezioni naturali o fluidi, una materia e un processo col quale la natura risponde alle offese e alle invasioni arrecatele, al fine di proteggersi o curarsi. Come sottolinea giustamente Awai, le secrezioni naturali possono anche essere il sintomo di un’irruzione o di un contatto corruttori, a causa del quale la vittima può gradualmente decomporsi e disintegrarsi. Avendo deciso di esplorare questo aspetto della metafora nel suo lavoro per Albisola, Awai vi ha introdotto anche un altro elemento iconico che radica il suo lavoro a livello storico e culturale, quello di una figura d’uomo d’azione, il personaggio di Tarzan.
Per le culture coloniali di un tempo, la figura di Tarzan è particolarmente problematica e non rappresenta l’eroe d’azione amato dall’Occidente e con cui l’Occidente si identifica, ma un tropo della disapprovazione e delle istituzioni coloniali. Tarzan, signore della giungla ed eroe dell’Arcadia, scopre un mondo di suoni animali e di vita incorrotta che rappresenta tutto ciò che è Altro per l’immaginario occidentale, un mondo che è significativamente simile nella sua rudezza all’immaginario africano di Joseph Conrad, in cui ai nativi sono negate tutte le sofisticazioni proprie delle razze civili, tra cui persino la capacità di parola. In quanto icona culturale che resiste nel tempo, Tarzan ha contribuito alla formazione delle idee fantastiche di generazioni di occidentali, riguardo a tutti i popoli non occidentali. Il suo ululato contagioso ha la stessa portata delle più memorabili sequenze d’azione di Clint Eastwood o del classico ritornello di Robert de Niro: “Dice a me?”. Tarzan, perciò, merita una particolare attenzione in qualsiasi analisi o dibattito sulla globalizzazione, questione che la seconda Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea ha scelto come tema. Per un completo accertamento delle sfaccettate implicazioni della globalizzazione, il lavoro di Awai si rivela dotato di una particolare forza, specialmente per il fatto che la globalizzazione non è semplicemente un business basato sullo scambio di merci, di rate d’interesse, di fusioni globali e di politiche di potere; è anche quello che io ho chiamato “gioco culturale”, in cui si assiste a una replica delle macchinazioni del passato priva di qualsivoglia magia, mentre le fusioni culturali sono ottenute per via di un’invasione e di una corruzione dell’immaginario. Awai vede questo processo come un’occupazione in tre atti: “Incursione, Recessione e Infrazione”. Allo stesso modo, non è privo di significato il fatto che i personaggi metaforici di Awai, toccati dal potere corruttore dell’uomo d’azione, trasudino rosso, bianco e blu. Si ha proprio l’impressione che in questo millennio tali colori marchieranno le vite di milioni di persone in tutto il mondo, nel bene e nel male.
Misteriosamente, se da un lato le tematiche di Nicole Awai ruotano intorno a un “evento corruttore” che provoca l’occultamento dei suoi oggetti e alla fine la loro disintegrazione, dall’altro anche il lavoro realizzato da Andries Botha per la Biennale tratta la “graduale ma certa disintegrazione” di una precisa struttura, vale a dire la nostra società del Progresso. Nell’opera di Botha, prodotta in collaborazione con lo Studio Ernan Design, viene distrutta una struttura a forma di griglia minuziosamente costruita in terracotta. Il tema è classico, ma rispecchia la nostra epoca. Come il crollo delle torri a New York nel 2001 ha ampiamente dimostrato, le sicurezze della nostra civiltà e del suo libero mercato, nonché le certezze dell’epoca moderna, si sono dimostrate un puro mito che si è facilmente disintegrato per l’azione di una debolissima infrazione. Essendo basato su una fantasia di metallo, alla fine ha ceduto alla pressione, come accade a tutti i metalli.
Negli ultimi vent’anni, Andries Botha ha creato opere che analizzano e cercano di mettere in luce quelle società e quelle passioni che alla fine cedono alle impurità interne, alla propria intrinseca corrosione, o al tempo. Inoltre, in questa nuova opera Botha ribalta il senso dell’antica tradizione ceramica, che comporta la creazione o la fabbricazione, invece della distruzione. Prima con la costruzione di questo corpo ceramico e poi con la progettazione della sua autodistruzione, Andries Botha ci ricorda che l’idea di un potere invincibile o quella di una bellezza impeccabile sono auto-illusorie, perché tutte le cose alla fine cessano o si auto-distruggono, siano esse bellissime urne o imperi potenti, perché nulla dura più del tempo.
Questi quattro artisti non soltanto hanno affrontato, ognuno secondo il suo diverso stile, questioni centrali in ogni discorso riguardante la nostra contemporaneità, immettendovi concetti derivati dai loro luoghi di provenienza e dalle loro origini particolari, ma hanno anche saputo dare forma ai propri concetti misurandosi con il mezzo della ceramica e col meccanismo della collaborazione con i maestri ceramisti di Albisola. Ognuno di loro ha in tutta evidenza vissuto un’esperienza gratificante lavorando con gli studi di Albisola, ed è auspicabile che il loro contributo possa aver arricchito il progetto basato sulle collaborazioni tra artisti contemporanei e ceramisti liguri. Nel corso dei due decenni in cui lavorò su e giù per la Liguria, Wifredo Lam è stato soprattutto un artista nero solitario, amato perché era uno tra i maestri ceramisti di Albisola. Con la loro presenza alla Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea, El Anatsui, Nicole Awai, Bili Bidjocka e Andries Botha estendono il lascito di Lam, poiché iscrivono ulteriormente l’Africa e la sua diaspora nella storia della tradizione ceramica della Liguria.
Testo pubblicato nel catalogo della II Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea, Attese, Albisola (Italia), 2003.