Il rapporto artista-artigiano all’interno delle fabbriche albisolesi del ’900
Cecilia Chilosi
Il cinque giugno del cinquantanove / alla San Giorgio di Albissolamare / Poggi schiaffeggia vigorosamente / le cinque bocce di toscana terra / e con svelta abilità di torneante / escono dalle sue gambe e le sue mani: / un vaso tondo / un vaso quadrato / un vaso triangolare / un vaso ovale / un vaso a zig-zag / e li colloco su un piatto di gesso / Asger Jorn strettamente li avvicina / ed egli testimone al gran duello / mi incita e dice sottovoce: “A voi” / Eccoli pronti all’aggressione mia / Con impeto nervoso le mie dita / di tutte e due le mani fanno strage / torcono piegano urtano decise / stringono forte strongolantemente / in un impeto supremo di creazione / Sembran sacchetti vuoti di materia / ma colmi son di spirito tremendo / a sostenersi reciprocamente / per appagare la mia mente appieno / Non sono più cinque vasi distaccati, ma fusi insieme formano uno solo / ... / Poggi lo osserva con gli occhi neri / e dice che vi manca ancora un vaso / due “si” di me e di Jorn d’approvazione / Colloco il sesto vaso di traverso / la base mezza fuori dal piatto in gesso / come chi giunga all’ultimo momento / e vi si butti risoluto avanti / L’aiuto nella spinta è la sua bocca / che pare più eloquente delle altre / ... / E finalmente l’opera è completa / intorno voci di viva ammirazione / dopo il silenzio trepido d’attesa / l’anima mia attesa alla conquista / ha spalancato all’arte un’altra via / che battezzai perciò “Fustigazione” solo oggi sono “Ceramista”...
Farfa, di getto, alle 5 del mattino lì Savona, 6 giugno 1959.
Il brano, tratto da una poesia di Farfa, risulta esemplificativo del rapporto che viene a instaurarsi all’interno della manifattura tra l’artigiano che prepara la terra e l’artista che l’anima col suo gesto creativo. Gli interpreti della vicenda sono Giovanni Poggi, decano della ceramica albisolese, l’artista danese Asger Jorn e il futurista Farfa (Vittorio Osvaldo Tommasini), poeta, pittore, scenografo e uomo di teatro, stabilitosi a Savona nel 1929. Nel mondo della ceramica il rapporto tra l’artista e l’artigiano è complementare, in quanto le fasi di manipolazione, foggiatura e cottura richiedono una conoscenza empirica di lunga data.
Lungo il corso del ’900 erano soprattutto le manifatture a fare da supporto all’attività di pittori e scultori cui veniva data ospitalità nelle fabbriche secondo un’esperienza paragonabile a quella odierna della Biennale. Questa scelta implicava anche dei sacrifici. Manlio Trucco, fondatore e direttore artistico della Fenice, presso la quale negli anni ’20 ha lavorato Arturo Martini, ricorda nelle sue memorie la confusione creata dal genio del trevigiano. Martini monopolizzava gli artigiani, li voleva tutti a sua disposizione, si inseriva nei meccanismi della produzione. Il loro rapporto è esemplificativo di un certo modo di procedere: lo scultore modella il prototipo, delegando a Trucco le fasi di produzione e decorazione.
Sullo scorcio dell’800 e nei primi anni del ’900, nelle Albisole si fabbricavano soprattutto pentole da fuoco. Questi manufatti prendevano il largo su barconi da carico, il mare infatti era la sola via attraverso la quale avvenivano i commerci a causa della difficile viabilità lungo la costa ligure.
È nell’ambito della produzione semi-industriale di pentole che si formano tornianti, terranti, fornacianti che saranno poi l’ossatura delle fabbriche nate nel corso del ’900. In questo settore aveva lavorato “Bausin”, Giuseppe Mazzotti, fondatore, nel 1903, della ditta che da lui prende il nome, destinata a rivestire il ruolo di protagonista del rinnovamento della ceramica del ’900. Mazzotti si era formato come ceramista a Livorno, a Napoli e, ritornato in patria, dai Piccone. Aveva fatto quindi il torniante nella manifattura di Nicolò Poggi, una delle più importanti dell’epoca.
Nel ’21 viene fondata, a opera dei fratelli Giulio e Angelo Barile, con Giuseppe Agnino, La Casa dell’Arte e sarà qui che convergeranno primariamente artisti, letterati e poeti in stretto contatto con il mondo parigino. Subito dopo verranno aperte la Fenice, la Spiga, l’Alba Docilia, La Fiamma. Nel giro di pochi anni quasi una decina di manifatture prende le mosse affiancando al genere tradizionale una lavorazione di tipo déco. Questa contingenza è particolarmente positiva per la ceramica albisolese, che partecipa a tutte le più grandi esposizioni. Diverse immagini scattate all’interno della Fenice, nella prima sede di via Colombo, documentano l’attività del giovanissimo Manlio Trucco e l’organizzazione dei laboratori nei quali il lavoro veniva eseguito secondo una scansione costante. Nel reparto di decorazione si vedono il pittore Antonio Vaccari, Trucco, con il farfallino in piedi sulla destra e quattro decoratrici intente a dipingere vasi. Altre riproduzioni mostrano quanto numerose fossero le pittrici impiegate in questo reparto e i tornianti all’opera sotto la supervisione di Trucco.
Trucco era stato a Parigi a contatto con quei modelli déco che farà conoscere al suo rientro in patria, dando l’impulso alla creazione dello stile definito “Albisola 1925”. Nel 1921 egli era entrato a far parte del La Casa dell’Arte come direttore artistico, imprimendo la propria impronta alla produzione, nel 1922 aveva fondato la Fenice con Cornelio Geranzani.
Il primo dopoguerra è contraddistinto nelle Albisole da un’altra felice stagione artistica: quella del secondo futurismo. Artefice di questa “rivoluzione” è Tullio Mazzotti. Assieme a lui collabora il fratello Torido, cui spetta il compito di tradurre i disegni e i bozzetti degli artisti, secondo una progettualità industriale applicata alla linea della manifattura. Grazie all’enorme successo riportato progressivamente dalle ceramiche futuriste, la ditta si ingrandirà fino a contare ben cento dipendenti.
Nel periodo del secondo conflitto bellico la produzione cessa quasi del tutto, per riprendere nuovamente al termine del conflitto. Molte manifatture hanno ormai chiuso, ma nel giro di una decina d’anni, ad opera di tornianti e ceramisti che vi lavoravano, ne apriranno circa altre quindici.
Una foto del ’56 mostra la nuova Manifattura Ceramiche Minime Fratelli Pacetti (l’odierna Ernan Studio Design) attrezzata industrialmente con una produzione di oggettistica e articoli per la casa. I Pacetti erano già à la page nel ’49, primi in Italia producevano a ciclo continuo, con una ventina di addetti e tre forni elettrici a intermittenza, ceramiche destinate ai bambini, la Tavola della Pupa.
Tra i luoghi mitici della ceramica albisolese c’è Pozzo Garitta: una piazzetta a ferro di cavallo ad Albissola Marina, luogo di incontri e di feste, oltre che di lavoro. Gli artisti venivano volentieri non solo per usufruire della fitta rete di manifatture, ma anche per ristorarsi sulla spiaggia antistante, cenare nei ristoranti tipici, chiacchierare ai tavolini del Bar Testa e partecipare alle magnifiche feste estemporanee.
A Pozzo Garitta aveva il suo studio Fontana, vi lavorava Beatrice, una delle ultime figurinaie, c’era lo studio di Siri, la fornace del “Bianco”, Bartolomeo Tortarolo, da lui si trovavano come in famiglia Luzzati, Piombino, Broggini. In una riproduzione del ’75 si vede Lam che sta creando, sotto l’occhio vigile di Poggi, un piatto alla manifattura San Giorgio. Le fabbriche, fino almeno agli anni ’60, impegnavano mediamente una ventina di addetti e alcune arrivavano fino a contarne una cinquantina. C’era una grande richiesta di manufatti realizzati in piccola serie che imponeva la presenza di molti tornianti. Ora, nelle Albisole, la maggioranza delle manifatture ha un solo torniante, mentre diverse ne sono sprovviste e acquistano il biscotto già lavorato da altri centri ceramici.
Dagli anni della ricostruzione e del boom economico si è andata progressivamente rastremando la dimensione aziendale, per arrivare alla situazione attuale in cui si è passati alla bottega a carattere familiare con spazi limitati al reparto di fabbricazione e alla zona di vendita.
Sarebbe auspicabile un’inversione di tendenza, anche perché l’arte e la presenza di grandi artisti all’interno delle fabbriche albisolesi hanno sempre coinciso con periodi in cui anche la produzione artigianale era in auge. Soltanto nei momenti di fioritura delle manifatture infatti, si sono verificati quell’osmosi tra l’artigiano e l’artista che hanno portato alle grandi stagioni dell’arte albisolese.
Estratto dagli Atti del Convegno “La tradizione locale della ceramica e la globalizzazione dell’arte contemporanea”, 19/20 ottobre 2002, Fortezza del Priamàr, Savona.
Atti del Convegno La tradizione locale della ceramica e la globalizzazione dell’arte contemporanea