Crash. La dura scorza della materia


Gianfranco Maraniello



“Collaborare” a un progetto come la Biennale di Ceramica nell’Arte Contemporanea significa “lavorare insieme”. Occorre sapere rispondere all’appello delle località che ci ospitano, raccogliere le sollecitazioni di tutti coloro che qui intervengono. Ecco perché mi sembra opportuno soffermarmi su alcune questioni poste stamattina. Credo sia necessario fare nostri gli stimoli che stanno emergendo in questo convegno e, per parte mia, mi pare opportuno modificare l’intervento che avevo previsto. Si è dato rilievo all’idea di comunicazione e al suo rapporto con quella di comunità. Si è parlato di temi quali l’ospitalità, la partecipazione, la festa, che vorrei intendere in senso nietzschiano come produttiva festa del pensiero. In quanto co-curatore, vorrei positivamente sottolineare alcuni “limiti” di questa Biennale. In primo luogo è la stessa ceramica che costituisce un limite, anzi: sono parecchi i limiti evocati dalla sua lavorazione. Se ne sperimenta il limite fisico, la specifica consistenza, la durezza, la ”scorza”, come intendevo nel titolo originariamente dato a questa relazione. E ci si trova a riflettere sul modo in cui essa rivendica il proprio ingombro e si offre nello spazio. L’intervento di Nelson Herrera Ysla potrebbe spingerci ad affermare che tali limiti sono anche un appello a realizzare opere che hanno di per sé i caratteri della bellezza al di là delle intenzioni dell’artista. Tradizionalmente la ceramica ci porta infatti a pensare a una manipolazione che ne assecondi le caratteristiche aspirando a una “forma bella”. Ma la ceramica ha soprattutto un limite temporale. Lavorare con la ceramica costringe a tempi di “attesa” — e così credo vada inteso il nome della Associazione che ci sta ospitando — che evoca il tempo necessario affinché l’oggetto in ceramica si concretizzi, sfidando la propria “dura” fragilità, il carattere empirico della lavorazione che fa di ogni opera un’ipotesi da assegnare al tornio, al forno e alla mano esperta del maestro ceramista.
Un ulteriore limite — faccio riferimento a quanto diceva oggi Olu Oguibe — è quello del “saper-fare”, perché oggi gli artisti hanno raramente confidenza con questa tecnica, per cui ci si deve affidare alla competenza del maestro ceramista, che spesso finisce con l’orientare l’invenzione degli “inesperti” artisti contemporanei. Si è parlato della mano dell’artista, ma qual è il portato della mano dell’assistente? È una sorta di protesi? Si potrebbe sostenere che la mano dell’assistente sia piuttosto un materiale con cui l’artista deve fare i conti per imparare che cosa effettivamente ha a disposizione e può realizzare. Al tempo stesso quello che erroneamente sto chiamando “assistente” è anche un complice, spesso talmente consapevole di quel che fa da rendere quasi obsoleto quell’ulteriore limite costituito dal discrimine tra arte e artigianato. Si tratta di un rapporto che viene continuamente interrogato dai protagonisti di questa Biennale. In un’epoca in cui all’artista è spesso risparmiato il saper fare, dal momento che può delegare la realizzazione pratica, ad Albissola è sorta invece una rassegna che chiede all’artista la presenza, un tempo per confrontarsi con una tradizione e farla propria. Spesso questi è colto da uno smarrimento iniziale, comincia a vagare tra le opere di Wifredo Lam, di Asger Jorn, di Lucio Fontana rendendosi sensibile a tale tradizione che sembra essersi formata sul tornio del tempo. Presto comprende il paradosso in cui è caduto nell’accettare l’invito ad appartenere a questa storia per rinnovarla e segnarne un ulteriore passo. Gli si domanda che la tradizione venga infranta. Se ne vuole una rivitalizzazione per allontanare i fantasmi del manierismo o, addirittura, del folklorismo. Ma, cercando la novità, si provoca la rottura perché, come in tutte le tradizioni, esiste una serie di discontinuità che segnano il continuo di quel che, in questo caso, si identifica con la ceramica, capace di invadere lo spazio e di offrirsi come opera. È Young Chul Lee che ha accennato al carattere “donativo” della lavorazione della ceramica. Ed è curioso pensare anche che la ceramica sia il materiale dei vasi da farmacia, contenenti l’ambiguo pharmakon, il dono, la dosis, il veleno e insieme la capacità di guarire. Tornando alle ambiguità di quella che Olu Oguibe ha definito la mano dell’artista e quella dell’assistente, credo che sarebbe davvero inadeguato il pensare al saper fare di cui si “serve” un artista solo in termini di aiuto, protesi, strumento. Ci sono molti artisti che operano facendo della propria pratica una sorta di esercizio di appropriazione di un sapere o elaborando esperienze di tipo conoscitivo. Ne è un esempio Ganahl, con il suo apprendere le lingue.
Tutti noi, qui, ci stiamo adoperando per dare un contributo a questa tradizione di cui ci facciamo provvisoriamente eredi per legittimare il nostro modo di intendere la ceramica nell’arte contemporanea. Ci stiamo dando un tempo per dire la nostra su questioni capitali come la contemporaneità sapendo che pratiche come quella della lavorazione della ceramica possono aiutarci a sopportare quei temi che la prima edizione di questa Biennale poneva con chiarezza. In merito alla questione della globalizzazione dell’economia e dell’arte ricordo che si era messo l’accento su un termine che potesse contrastarne la violenza omologante e si era parlato di “resistenza”. Preferirei operare uno slittamento semantico verso il termine “insistenza”. Siamo coinvolti in qualcosa che non è solo una mostra, ma interroga il nostro fare senza finalizzarlo in uno spettacolare evento espositivo. Stiamo cercando di assimilare il tempo della ceramica e ciò richiede un continuo coinvolgimento legato ai tempi di tale lavorazione. Tutt’al più si tratta di esibire una prassi, una dinamica, un certo lavorare “in progress”. L’invito è a osservare gli artisti al lavoro, a considerare la loro tenacia operativa e l’insistita e prolungata presenza, spesso con la mano a saggiare la ricorsività del tempo del tornio. Una mano che, per sineddoche, sembra ricordare, come sostiene Olu Oguibe, che anche l’artista concettuale è sempre coinvolto fisicamente. Un’ambiguità che trova conferme in lingue, come quella italiana che ci ricordano la “tattilità” del pensare con espressioni come “afferrare un concetto”, una vocazione “prensile” che etimologicamente rinvia al latino capere (prendere) e che porta un filosofo come Jacques Derrida a riflettere sulla crisi della metafisica scrivendo un libro dal significativo titolo La mano di Heidegger. Un fare “a mano” che richiede tempo, lo rivendica, ne fa un valore. Costringe a un’attesa che diviene parte integrante di ogni lavoro e, in generale, di questa Biennale, così capace di insegnarci ad accettare la contingenza nei lunghi processi di lavorazione e ad insistere nei nostri tentativi di trasformare la terra in arte.



Estratto dagli Atti del Convegno “La tradizione locale della ceramica e la globalizzazione dell’arte contemporanea”, 19/20 ottobre 2002, Fortezza del Priamàr, Savona.



Atti del Convegno La tradizione locale della ceramica e la globalizzazione dell’arte contemporanea