La materia della mano dell’artista


Olu Oguibe



Nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin ha celebrato le meraviglie di tecnologie di riproduzione quali la fotografia e la stampa, come estrema sovversione del culto dell’originalità in arte e dei fondamenti del gusto e dell’egemonia borghesi. Può sembrare che le tesi di Benjamin contengano una certa verità, perché nell’800 la fotografia ha effettivamente sottratto l’appannaggio della ritrattistica alla nobiltà, diffondendola fra le masse come mai era riuscito alla pittura, e pareva aver rimpiazzato con mezzi meccanici la mano dell’artista. In effetti, questi mezzi avevano liberato la fabbricazione delle immagini dalla fallibilità e dalla tirannia del tocco dell’artista. Ma lo fecero del tutto? La fotografia è riuscita davvero a rimuovere l’elemento umano dalla costruzione delle immagini o addirittura a spegnere il nostro desiderio della mano dell’artista? Anche al suo apparire, a metà dell’800, era chiaro che la riproducibilità tecnica non avrebbe sostituito il fattore umano nella fabbricazione delle immagini o eliminato la mano dell’artista. La macchina fotografica non agiva da sola, senza l’intervento e il controllo dell’uomo. Qualcuno doveva preparare l’apparecchio, disporre il soggetto, inquadrare l’immagine da un’angolatura e secondo un’atmosfera particolari e, successivamente, trattare l’immagine grezza con un margine sufficiente per manipolarla o per intervenire “a mano”.
La riproduzione meccanica ha salvato la fabbricazione delle immagini dalla decadenza della pittura della fine del ’700, ma non ha né sostituito la mano dell’artista, né placato il desiderio di vedere le prove dell’azione dell’uomo in arte. All’inizio del ’900 sorse un nuovo movimento che contribuì ancor più al revival dell’idea che l’arte possa fare a meno della mano dell’artista. Il Concettualismo diffuse il convincimento che nel processo artistico il fattore mentale fosse più importante di quello manuale, in altre parole che l’artista non dovesse più operare o costruire per creare opere d’arte, ma che avrebbe potuto realizzarle con la stessa abilità grazie all’azione della volontà. Spingendosi molto più in là di quanto non avessero fatto la fotografia o la riproduzione meccanica, l’approccio concettuale inferse un gravissimo colpo a ciò che l’occidente riconosceva come arte. È quasi passato un secolo dal 1913, dalla Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp. In tutto questo tempo, abbiamo potuto assistere a parecchie manifestazioni della nuova libertà portata nell’arte dal concettualismo. Questa libertà, al contempo, ha dato anche spunto a innumerevoli polemiche, come ha dimostrato ancora di recente il letto disfatto esposto alla Tate Gallery di Londra, o le luci al neon che non molto tempo fa hanno portato un artista alla vittoria del prestigioso Turner Prize. Queste ultime manifestazioni di arte concettuale, naturalmente, non hanno sollevato meno polemiche di quelle suscitate dai pezzi di Duchamp all’inizio del ’900, il che potrebbe portarci a pensare che, dopo tutto, le cose non siano cambiate poi molto. L’innalzamento dell’artista da artigiano a intellettuale non ha rivoluzionato il mondo. Ci si potrebbe quindi chiedere se tutti gli anni trascorsi e tutte le polemiche causate dall’arte concettuale e dalla riproduzione meccanica abbiano davvero contribuito a ridurre, per non dire a eliminare, il nostro desiderio di una prova della presenza della mano dell’artista. No davvero! Si potrebbe arrischiare come risposta. La domanda successiva, forse più importante, quindi è: perché la questione della mano dell’artista ci appassiona così tanto? Ora, andiamo per esempio a visitare un’esposizione di Picasso o di Van Gogh: ci fermiamo davanti ai quadri e osserviamo le pennellate. Fissiamo intensamente le firme. Ci figuriamo come potesse essere l’opera quando era ancora sul cavalletto, come stava nello studio dell’artista, la semplicità con cui era stata iniziata. Ci concentriamo e cerchiamo di entrare con la fantasia nel mondo presunto dell’artista, insinuandoci nel suo ambiente. Alla fine, quando l’immaginazione si è messa in moto, ci immedesimiamo nel processo e nel momento della creazione dell’opera. Oppure, rechiamoci a vedere un monolite antico o medievale, o la Pietà, o una scultura di Henry Moore: la prima cosa che ci viene in mente è come siano stati incisi, o fusi, persino come siano stati portati dal luogo d’origine alla sede attuale. Pensiamo al processo della loro fabbricazione manuale: pensiamo a come sono stati realizzati. Solo in un secondo momento, ci chiediamo come siano stati concepiti o addirittura che cosa vogliano dire. Si potrà sostenere che ci fissiamo sulla prova della presenza della mano dell’artista perché l’opera ha anche un valore materiale o perché tale presenza dimostra l’autenticità, perché è ciò che ci fa distinguere l’originale dal falso o dalla copia e, così facendo, eleva l’opera al di sopra del quotidiano. Ma questo, in primo luogo, non spiega perché diamo valore all’originalità e alla singolarità. Qual è il significato profondo del fattore umano, al di là del suo legame con il valore di mercato di un’opera? Gli artisti direbbero che la mano dell’artista ci rivela qualcosa che è peculiare alla creazione. Che ci parla fondamentalmente di quell’abilità che ci rende speciali rispetto alle altre specie, in quanto creature capaci anche di creare. Nella sua poesia Good Morning, America, il grande poeta americano Carl Sandburg mette in evidenza il mistero della specie umana: “quel giullare a due gambe... l’Uomo” costruisce macchine che volano ed edifici che raggiungono il cielo, per toccare col dito l’occhio di Dio. Non c’è bisogno di dire che questa inclinazione egotista ci ha anche portato a un’angoscia indicibile, sperimentata con il recente crollo delle torri del World Trade Center di New York. Comunque, siamo l’unica specie che aspiri a divinizzare il saper fare. Noi creiamo e la nostra capacità di creare ci rende simili agli dei. Ora, proprio la mano dell’artista costituisce la prova migliore di questo nostro poter sostituire la divinità: noi diamo valore, sopra tutte le altre cose, a tutto ciò che creiamo manualmente perché questo ci ricorda — rassicurandoci al riguardo — la nostra somiglianza con gli dei. La copia non ci offre questa rassicurazione, né lo fanno gli eventi della natura o i semplici oggetti trovati, finché non li abbiamo spostati, modificati, ricollocati per ridefinirli e apprezzarli meglio; finché non li abbiamo investiti di una prova della nostra presenza. Perciò, quando cerchiamo la traccia della mano dell’artista, cerchiamo la testimonianza della mano di Dio. È per questa ragione che, a dispetto di tutte le previsioni e dichiarazioni che ne hanno decretato la fine, la pittura oggi è ancora in vita e ha la stessa importanza che aveva all’epoca delle caverne, a cui risale la nostra comune origine.
Questo ci porta alla pratica della ceramica. Credo fermamente che sia molto difficile trovare un altro processo, o mezzo, in grado di fornirci una prova più evidente della mano dell’artista, e persino della sua prossimità agli dei, dell’arte prodotta con l’argilla. Lavorare l’argilla, manipolare e trasformare la terra grezza, questa materia informe e malleabile, quasi vivente, di cui noi stessi siamo composti, trasformarla dal suo stato informe in qualcosa di riconoscibile, è ciò che ci porta a essere più vicini a quel momento originario in cui, secondo tutti i miti della creazione, siamo stati formati dal nulla, divenendo esseri supremi. Nei miti africani della creazione, a me familiari, gli dei creatori si sedettero con un mucchietto d’argilla come il vasaio al tornio, e formarono i nostri primi antenati proprio con la stessa fallibilità del vasaio che lavora al tornio. Nei miti Yoruba, Obatala, il dio creatore, dopo parecchi giorni di lavoro cedette alla fatica e cominciò a bere, iniziando così a perdere colpi e a creare albini e infermi. Il dio degli ebrei formò i progenitori di quel popolo partendo dalla terra con cui è composto il suolo e soffiandovi lo spirito della vita. “Il persiano devoto si tocca la fronte con un po’ d’argilla e si prostra davanti a Dio”, scrisse il grande architetto iraniano Nader Khalili, parlando della madre sul letto di morte e di come un parente avesse portato con sé un po’ di argilla in polvere a cui aveva mescolato dell’acqua, per posarla poi sulle labbra della donna come rito estremo e aiutarla così a staccarsi dalla terra liberando il suo spirito. “Il genere umano è nato dall’argilla” — concludeva Khalili — “L’argilla è l’ultima sostanza che una persona dovrebbe tenere in bocca prima di morire”. L’artista che lavora con l’argilla, perciò, lavora con un mezzo primordiale e divino e riproduce il processo attraverso il quale, secondo gli antichi, avvenne l’intera creazione. Il segno che l’artista lascia su questo mezzo primordiale riflette, in tutta la sua essenza, la mano di quel principio più alto che ci fece nascere dall’argilla e dalla polvere della terra, portandoci all’essere.



Estratto dagli Atti del Convegno “La tradizione locale della ceramica e la globalizzazione dell’arte contemporanea”, 19/20 ottobre 2002, Fortezza del Priamàr, Savona.



Atti del Convegno La tradizione locale della ceramica e la globalizzazione dell’arte contemporanea