L’arte di Lilliput
Roberto Costantino
La parola globalizzazione è per molti, e a ragione, un pugno in un occhio. Questa parola evoca scenari da incubo: l’espansione su scala planetaria di un capitale “tritatutto” che elimina le specificità delle realtà locali e nazionali, la violenza del dominio capitalista che deterritorializza le produzioni per recuperare forza lavoro a basso costo e per espandere illimitatamente i consumi.
Per restare a noi, la globalizzazione indica la dominante uniformazione della cultura su scala planetaria, la sparizione delle tradizioni culturali locali. Partiamo da qui per dire che l’esposizione che abbiamo curato ad Albisola vuole ipotizzare la proliferazione di quegli anticorpi necessari per resistere a una tale minaccia. Ma, per dirla con Jeremy Brecher e Tim Costello, l’esposizione fa sua una sorta di strategia lillipuziana.
Nella favola satirica I viaggi di Gulliver, di Jonathan Swift, i minuscoli lillipuziani, alti appena qualche centimetro, catturavano Gulliver il predone, di tante volte più grande di loro, legandolo nel sonno con centinaia di fili. E questa strategia lillipuziana, affermano i due saggisti americani, è speculare alle nuove strategie delle grandi imprese globali. “Così come la strategia di queste imprese crea reti mondiali di produzione che collegano aziende separate, la strategia lillipuziana immagina forti organizzazioni locali di aiuto reciproco e di alleanze strategiche con movimenti analoghi di tutto il mondo”.
Giocare la globalizzazione a proprio favore, per quello che si può, significa dunque far proprio di un progetto curatoriale l’attuale compressione spaziotemporale, determinata dalla comunicazione globale e istantanea via internet che annulla le distanze, per far convergere in una realtà locale una moltitudine di localismi a cui dare rappresentanza: significa contraddire l’imperante omologazione e uniformazione culturale che annulla le differenze per promuovere, invece, confronti e scambi multiculturali nell’ambito dell’ospitalità offerta da una tradizione locale qual’è quella della ceramica albisolese. Vuol dire, insomma, sperimentare in una realtà locale la temporanea convivenza di interessi eterogenei e conflittuali che caratterizzano il “nuovo disordine mondiale”.
La globalizzazione promuove la mobilità fisica e la trasformazione delle località. Albisola oggi si proietta in questa dimensione avendo alle spalle il passato internazionalista delle avanguardie artistiche del Novecento di cui questo progetto curatoriale vorrebbe essere la continuazione ideale. Ecco allora che in questa Biennale la realtà locale diviene uno spazio di flussi e di connessioni tra culture — e globale diviene l’orizzonte culturale in cui il progetto curatoriale incastona la dimensione locale.
La compressione spaziotemporale della comunicazione globale in rete — l’accelerazione della comunicazione che si riduce all’istante — conduce una moltitudine di artisti alla dimensione temporale naturale della terra ceramica, costituita dalle essicazioni e cotture che sono attese in un rallentamento del tempo che è prossimo alla sua sospensione.
Il progetto curatoriale è inscritto nelle opere in ceramica che si è riusciti a realizzare a partire dall’ambizione di fare quello che si vuole e che alla fine si è riusciti a fare: mentre le opere si sono realizzate, si è sviluppato a sua volta lo stesso progetto curatoriale di cui l’esposizione è l’aspetto terminale.
La mobilità di artisti provenienti da diverse città italiane, dalla Corea, dall’Argentina, dal Kosovo, dalla Francia, dalla Danimarca, dal Giappone, dalla Serbia, dalla Spagna, dall’Iran, dall’Austria, dal Camerun, dalla Cina, dalla Svizzera, dall’Inghilterra, dal Ghana, dalla Svezia e dall’America verso un piccolo punto segnato sulla mappa geografica (Albisola) è alla base di questo progetto, ciò che l’ha reso possibile. Ed è questo viaggio di una moltitudine di artisti verso Albisola che prende infine volto nell’esposizione, tanto quanto l’ospitalità — l’ospitalità come forma di dono disinteressato e desiderante — offerta dalle manifatture locali che hanno messo in campo l’apertura verso l’altro, verso chi “non è casa propria”. Sia l’ospitalità delle botteghe che la mobilità degli artisti hanno alla propria base una reciproca apertura. Sia chi ospita (la bottega) che chi migra (l’artista) sperimenta la necessità di confrontarsi con la cultura, le tradizioni e i riti dell’altro. La migrazione e l’ospitalità significano, sempre e comunque, l’affermazione della propria identità ma anche la sua trasformazione.
Questa è la realtà prodotta dal progetto curatoriale: una comunità in formazione, temporanea, fluttuante. L’identità di una comunità ricercata e imprevedibile, confermata o modificata da ogni singolo artista. Verrebbe voglia di definirla in quanto comunità della passione, perché è la passione che ha coagulato temporaneamente i protagonisti di questo progetto ad Albisola per dare corpo a un’esposizione che risulta essere la somma delle tracce della mobilità degli artisti e dell’ospitalità delle botteghe che si sono intrecciate per dare luogo alla cooperazione. Il progetto curatoriale, infatti, non sarebbe stato possibile senza questa cooperazione che risulta costitutiva dei significati culturali elaborati dagli artisti e dalle maestranze.
I protagonisti della nuova scena globale, extraterritoriale e multiculturale dell’arte approdati temporaneamente ad Albisola sono messi nelle condizioni di filtrare la propria identità attraverso le possibilità e i limiti di un mezzo arcaico qual’è la ceramica per proiettarsi in un processo di affermazione e traduzione della propria singolarità culturale. A sua volta, anche la realtà locale accoglie i contributi inediti ed estranei che la rielaborano in un processo di metamorfosi. L’effetto raggiunto alla fine di questo processo in divenire, è che ogni componente in campo risulta trasformato e arricchito. E’ quindi fondante nella fabbricazione delle opere la reciprocità della trasformazione.
Ad Albisola ci troviamo di fronte a una realtà tradizionale in cui il sapere si tramanda in bottega, di generazione in generazione, ma la cui realtà si caratterizza oltreché per la continuità del tessuto produttivo, anche e soprattutto per la sua discontinuità, dovuta all’apertura costante a modelli acquisiti e rielaborati attraverso gli scambi culturali nel corso dei secoli. Quindi, guardando a questa tradizione secolare non dobbiamo pensare a un sapere produttivo cristallizzato, chiuso in se stesso: ciò che vediamo conservato è tanto la regola del mestiere quanto ciò che è stato progressivamente metabolizzato. Per di più, su questa tradizione secolare e cleptomane, di per sé caratterizzata dalla discontinuità, si è venuta a sua volta a innestarsi la discontinuità sperimentale della modernità rappresentata dalle avanguardie artistiche del 900. E se questa tradizione secolare della ceramica locale, caratterizzata pure dalla discontinuità, era rimasta fino ad allora inscritta nell’ambito produttivo e utilitaristico di un’arte minore e decorativa, nel corso del 900, grazie alle avanguardie artistiche farà un salto di qualità, venendone catapultata fuori.
La critica radicale della società fondata sul lavoro e sull’accumulazione di capitale, promossa dagli artisti nel corso degli anni Cinquanta del Novecento, ha modo di passare anche attraverso le fabbriche di ceramica albisolesi. E’ proprio in quegli anni che alcuni dei protagonisti dell’avanguardia artistica entrano in questi luoghi di lavoro consegnati dalla tradizione, per sottoporli a una critica radicale. Il principio perseguito da Asger Jorn di una creazione antieconomica, e alla base della teoria situazionista della liberazione dell’individuo dal lavoro, verrà messo in pratica anche ad Albisola. In contrapposizione alla razionalizzazione economica di ogni aspetto della vita degli individui che configura l’ideologia dominante del capitalismo, le ultime avanguardie del Novecento conducono dunque la ceramica verso l’improduttività. Quando l’artista d’avanguardia entra in fabbrica, il ciclo produttivo viene sospeso dalla sua opera per fare spazio al deforme e all’insensato. Ciò che appare primario è il piacere di mettere la fabbrica al servizio dell’inutilità dell’arte moderna e della sua dissoluzione formale. Ed è incredibile notare come la liberazione della ceramica dal suo stato di minorità — dal suo confinamento nell’ambito della cosiddette arti applicate — appaia compiersi definitivamente negli anni Cinquanta del Novecento, ma per coincidere con il programmatico disastro formale delle arti “maggiori”.
Dal ricercato disastro formale dell’arte moderna e dalla logica antieconomica della sospensione del lavoro produttivo in fabbrica discenderanno alcune manifestazioni esemplari. E’ il caso dello straordinario e monumentale pannello in ceramica modellato da Asger Jorn nel 1959, nella Fabbrica San Giorgio, correndovi sopra con una lambretta, la cui positiva distruttività richiama in gioco lo spirito luddista e vandalico di colui che è stato, per dirla con Guy Debord, “situazionista più di chiunque altro”. Ma è anche il caso del 2° Festival della Ceramica organizzato da Jorn ad Albisola, in cui verranno esposti centinaia di piatti disegnati non da artisti professionisti, ma da bambini: siamo solo nel 1955 e tarderanno a venire fino alla metà degli anni Sessanta gli statement “Tutto è arte” di Georges Maciunas e “Ogni uomo è un artista” di Joseph Beuys... Ma anche la Casa di Jorn sulle colline di Albisola appare inscriversi in una critica radicale della ceramica, dell’arte e della società quale abbozzo di opera collettiva realizzata a quattro mani con il vicino di casa Berto Gambetta, per la cui costruzione una parte preponderante è assegnata al recupero di cocci e scarti di ceramica già fuoriusciti dal ciclo produttivo.
Questo per dire che il progetto curatoriale concepito per Albisola sorge da un patrimonio culturale costituito dal secolare tessuto produttivo delle manifatture locali di ceramica e dal suo rovesciamento nel disastro formale dell’arte moderna realizzato in modo esemplare da uno dei grandi protagonisti dell’avanguardia artistica del Novecento.
Le ceneri dell’arte d’avanguardia e delle tradizioni locali costituiscono dunque il capitale culturale e l’habitat in cui si innesta l’attuale orizzonte multiculturale dell’arte che coniuga il grado zero a cui la ceramica è stata condotta nel Novecento con le secolari regole del mestiere e la potenza virtuosa delle maestranze.
Il progetto curatoriale, in definitiva, facendo convergere modernità e tradizioni nella lingua comune della ceramica — in questa sorta di esperanto — accoglie e genera la comunione e la valorizzazione di particolarismi e alterità confermando la verità della paradossale affermazione pasoliniana per cui “solo la rivoluzione può salvare la tradizione”.
Testo pubblicato nel catalogo della I Biennale di Ceramica nell'Arte Contemporanea “Il volto felice della globalizzazione”, Attese, Albisola (Italia), 2001.